Una cintura per partorire in sicurezza?
Fa discutere un disegno di legge che prevede ecografia intrapartum per tutte le donne in travaglio fisiologico, e cintura gonfiabile per "aiutare" le spinte
GRAVIDANZA E DINTORNI – Una cintura per partorire in sicurezza: una fascia addominale gonfiabile in grado di esercitare una pressione controllata sul fondo dell’utero per accompagnare e aiutare le contrazioni della fase espulsiva. Si chiama Baby-Birth e, insieme alla proposta dell’utilizzo dell’ecografia intrapartum (cioè in travaglio), è al centro di un disegno di legge “per l’incremento del livello di sicurezza del parto naturale”, firmato dal senatore Aldo di Biagio e dalla deputata Paola Binetti (entrambi di Area popolare NCD-UDC) e assegnato nei giorni scorsi alla Commissione Igiene e sanità del Senato. Ddl a sua volta al centro di attacchi e polemiche da parte di una gran varietà di esponenti del mondo della nascita e della salute perinatale. A partire dalle principali società scientifiche del settore – Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi), Associazione ginecologi universitari italiani (Agui) e Federazione nazionale collegi ostetriche (Fnco) – furiosi per non essere stati coinvolti nell’elaborazione della proposta. “Non si può scrivere un provvedimento sulla sicurezza del percorso nascita e del parto senza sentire il parere di chi tutti i giorni lavora con madri e neonati” hanno dichiarato congiuntamente i rappresentanti. E la contrarietà serpeggia anche al di fuori degli organi ufficiali, in associazioni minori (come Andria) e sui social network, dove si trovano a discutere medici e ostetriche critici nei confronti di un’eccessiva medicalizzazione del parto (dal gruppo Facebook di Slow Medicine a Cerchi, gruppo di discussione su Yahoo). Ma perché tutto questo polverone? Che cosa dice esattamente il documento presentato in Senato? Andiamo con ordine.
Il ddl: premesse e proposte
Il disegno di legge prende le mosse da alcune considerazioni espresse in una corposa introduzione. Per esempio:
1. Che il Servizio sanitario nazionale non abbia fatto abbastanza per ridurre i rischi connessi al parto naturale e che l’unica iniziativa presa dagli operatori in questo senso sia stata l’aumento dei tagli cesarei.
2. Che il parto naturale, in particolare la fase espulsiva, “non abbia concreti standard di sicurezza, protocolli e linee guida”. Ragione per cui – sostengono i firmatari – in presenza di qualche difficoltà, agli operatori non rimangono che due vie: l’esecuzione della manovra di Kristeller, “sovente accompagnata dall’uso del vacuum extractor (la ventosa ostetrica)” o il taglio cesareo.
3. Che in ambito ostetrico c’è un grosso problema di contenziosi tra medici e pazienti, che riguarda soprattutto il parto naturale (è il tema della medicina difensiva).
4. Che esiste un dispositivo medico innovativo, il Baby-Birth, in grado – si dice – di minimizzare gli eventi avversi nel parto e nel post partum, “in modo da ridurre la mortalità e la morbosità materno-feto-neonatale potenzialmente evitabile”.
Sulla base di queste considerazioni, il ddl propone in 5 brevi articoli un nuovo modello organizzativo del parto naturale, basato su pochi elementi essenziali e cioè: alta formazione del personale ospedaliero; informazione alle partorienti e alle famiglie sulle nuove modalità; utilizzo del partogramma digitale (un grafico dell’andamento del travaglio in funzione del tempo), con archiviazione dei dati a fini clinici, statistici, legali e assicurativi; ecografia intrapartum per il controllo della discesa della testa fetale; utilizzo della fascia gonfiabile se qualcosa non procede come dovrebbe. “Per esempio se la donna arriva alla fase espulsiva troppo stanca, dal punto di vista fisico o psicologico, e non riesce a spingere in modo adeguato” ci ha chiarito Luisa Acanfora, ricercatrice del dipartimento di medicina sperimentale e clinica dell’Università di Firenze, una delle referenti scientifiche del disegno di legge, coautrice di una piccola sperimentazione sul Baby-Birth condotta a Empoli.
Apriti cielo. Gli attacchi sono partiti a raffica, per una serie così lunga e circostanziata di motivi che è difficile decidere da dove partire per renderne conto. O forse no: visto che tutto ruota attorno alla cintura (in realtà Acanfora sostiene che non sia così, che il modello organizzativo proposto sia ben più ampio e articolato, ma l’enfasi posta sul dispositivo nel ddl è innegabile), partiamo da lì.
Naturale o medicalizzato?
Diciamolo pure: suona un po’ strano sentir parlare di ecografia intrapartum e di fasce addominali come strumenti per il parto naturale. In pratica, si tratta di prevedere per legge un’ecografia proprio in fase di travaglio e il posizionamento di una cintura per il monitoraggio continuo del battito cardiaco materno e fetale e per l’accompagnamento delle contrazioni. Il che molto probabilmente si traduce anche nell’obbligo per la donna della classica (e sempre più contestata) posizione litotomica, quella sdraiata sulla schiena con le gambe a 90°. Insomma, non è certo la situazione più naturale che si possa immaginare. Il disegno di legge in realtà si affretta a precisare che “il Baby-Birth non è da intendere come medicalizzazione del parto naturale”, ma il sospetto viene. Forse è solo una questione linguistica: senza pensare a estremismi del tipo “parto in mezzo alla natura” (come nel reality americano Born in the wild), il parto naturale è per definizione quello che avviene per via vaginale senza bisogno di aiuti medici. E sempre di più, oggi, chi parla di parto naturale si riferisce a una nascita che avviene in un ambiente tranquillo, con bassa interferenza esterna, in condizioni che permettono alla donna di assumere la posizione che preferisce. “Tutti elementi che già da soli riducono il rischio di ricorso a taglio cesareo e parto operativo”, sottolinea la ginecologa Anita Regalia, già responsabile della sala parto dell’Ospedale San Gerardo di Monza e tra le autrici del recente manuale Fisiologia della nascita (Carocci).
Spremiture della pancia
Ma al di là di come lo vogliamo chiamare, quello che importa è che il parto con il Baby-Birth sia più sicuro per mamma e bambino. Trattandosi di un dispositivo inserito in una proposta di legge, c’è da credere che questo aspetto sia documentato da un’abbondante letteratura scientifica, giusto? E invece no. Facciamo un passo indietro. Punto di partenza è la famosa (e famigerata) manovra di Kristeller, ideata a metà Ottocento dal medico tedesco Samuel Kristeller per facilitare i parti più difficoltosi. In pratica, consiste nell’esercizio di una certa pressione sul fondo dell’utero per accompagnare le contrazioni: come una spremitura della pancia per spingere fuori il bambino. “Kristeller utilizzava un dinamometro per misurare indirettamente l’intensità della pressione esercitata” spiega Acanfora. “Con il tempo, però, l’idea della misurazione è andata perduta e la manovra oggi viene praticata in modo incontrollato, spesso troppo intenso e quindi pericoloso, per la donna e per il feto. La fascia gonfiabile recupera quell’intuizione originaria, permettendo di esercitare una pressione lieve (mai più di 200 mmHg) e controllata”. Il problema, però, è che non ci sono prove valide che funzioni davvero.
Prove debolucce…
Lo studio più accurato disponibile risale al 1999: è uno studio inglese condotto su 500 donne al primo parto, con gravidanza fisiologica a termine e bimbo in posizione cefalica. Metà delle donne aveva utilizzato una cintura ostetrica gonfiabile durante la fase espulsiva e l’altra metà niente. Ebbene: non è emersa alcuna differenza tra i due gruppi per quanto riguarda il numero di parti strumentali, lacerazioni del perineo ed episiotomie. Un risultato analogo viene da uno studio coreano del 2009, su un campione di 123 donne sempre suddivise in due gruppi (con e senza cintura): nessuna differenza negli esiti perinatali, ma solo una durata inferiore della fase espulsiva nel gruppo con cintura (41 minuti versus 62). L’unico studio che va controcorrente è quello di Acanfora, realizzato in collaborazione con Erich Cosmi, dell’Università di Padova e Marco Filippeschi, direttore dell’Unità di ginecologia e ostetricia dell’Ospedale San Giuseppe di Empoli, dove è stata condotta la sperimentazione. L’indagine ha coinvolto 80 donne, mostrando risultati decisamente migliori nel caso di utilizzo della cintura Baby-Birth (un dispositivo ideato dall’ingegner Pierfrancesco Belli, realizzato dalla ditta Cabel di Pistoia e distribuito da BLN): meno lacerazioni cervicali e perineali, minor ricorso alla manovra di Kristeller, alla ventosa e al taglio cesareo, meno ricoveri dei neonati in terapia intensiva neonatale, minor fatica fisica e psicologica, durata più breve della fase espulsiva (37 minuti versus 111).
Risultati apparentemente interessanti, eppure giudicati negativamente dalla comunità scientifica, per la scarsa qualità dello studio. A riassumerne i limiti è Serena Donati, del reparto di Salute della donna e dell’età evolutiva dell’Istituto Superiore di Sanità, dove guida un progetto sulla mortalità materna in Italia (ne abbiamo parlato qui). Secondo Donati, la sezione dei metodi non è accurata (non sono ben definiti né il periodo di arruolamento delle pazienti né i criteri di inclusione e di esclusione dallo studio) ed è dubbio il fatto che la sperimentazione sia stata davvero condotta in cieco (cioè senza che gli operatori sapessero se la cintura applicata alle donne esercitasse o meno una pressione significativa). Inoltre, il gruppo di controllo mostra alcuni dati talmente peggiori di quelli nazionali – 40% di lacerazioni, 67,5% di Kristeller, 30% di parti operativi con ventosa (secondo i dati del CedAP, il Certificato di assistenza al parto, la media nazionale è del 4%) – da far dubitare della qualità dell’assistenza offerta dall’ospedale e da compromettere la validità dei risultati presentati.
“Insomma, in questo momento non ci sono prove sufficienti per giustificare l’introduzione del dispositivo in tutte le sale parto italiane” afferma Donati. Giungendo alla stessa conclusione raggiunta nel 2012 dall’allora presidente della Commissione Igiene e sanità del Senato, Antonio Tomassini, al termine di un’audizione in cui Acanfora e Marco Marchi (docente di statistica all’Università di Firenze) avevano presentato in via preliminare i risultati della sperimentazione di Empoli: “Al riguardo ho qualche dubbio che, nei termini in cui ci è stato presentato, sia un modello; comunque, lo accettiamo in via sperimentale, ma per avere dati attendibili bisogna parametrarlo con numeri più adeguati“.
Oggi Acanfora si affretta a precisare che il Ddl “non è la sponsorizzazione di un prodotto”, ma il dubbio resta. Anche perché alle domande su chi siano esattamente produttori e distributori di Baby-Birth ha risposto in modo molto evasivo, rimandando a un contatto con BLN che di fatto è stato impossibile raggiungere. Mentre in rete si è diffusa la voce che Acanfora sarebbe la moglie del produttore stesso (avremmo voluto chiedere conferma direttamente a lei, ma non si è data disponibile a ulteriori contatti). Ecco, a questo punto non è affatto chiaro a chi giovi tutto ciò. L’unico dato certo è che la situazione si è bloccata anche ad Empoli.
Fenarete in soffitta
Nell’ospedale già teatro della sperimentazione, infatti, sarebbe dovuto partire un progetto (intitolato a Fenarete, levatrice mamma di Socrate) basato proprio sul modello organizzativo di parto previsto dal Ddl, con tanto di ecografie, fasce gonfiabili e formazione degli operatori. Per metterlo in atto, l’Asl di Empoli avrebbe acquistato 250 fasce (costo dell’operazione: 100 000 euro, finanziati dalla Regione), che non sono mai state utilizzate. Anche perché la formazione non è mai partita.
Partorire in Italia
Come se non bastasse, oltre alla questione della cintura ostetrica c’è di più. Serena Donati, per esempio, contesta le premesse stesse del disegno di legge, a partire da quel riferimento alla mancata evoluzione del Servizio Sanitario Nazionale in fatto di percorso nascite: “Il SSN non ha saputo evolversi per prevenire il rischio del parto naturale, aumentandone la sicurezza con l’introduzione di metodologie innovative”.
“Non ci sono dati che possano far sostenere che, in generale, il parto in Italia non è sicuro” dichiara la ricercatrice dell’ISS.”Certo, ci sono margini di miglioramento, ma già oggi gli indici di mortalità perinatale e materna sono tra i più bassi in Europa. E sono decisamente migliorati negli anni. E questo non per caso, ma perché c’è stato un grosso lavoro del Servizio Sanitario Nazionale su tutto il percorso nascita”. Un esempio? “Se ne possono fare diversi: la pubblicazione di linee guida sulla gravidanza e il parto cesareo, la riorganizzazione della rete dei punti nascita che ha visto diverse Regioni, anche nel Sud del Paese (pensiamo alla Puglia), chiudere molti dei suoi punti nascita più piccoli, con meno di 500 parti all’anno. Ma anche il sistema di sorveglianza della mortalità e grave morbosità materna coordinato dall’ISS, grazie al quale i professionisti sanitari stanno investendo per promuovere l’appropriatezza dell’assistenza e migliorare gli esiti materni e neonatali”.
Donati contesta anche l’affermazione sulla mancanza di protocolli standard per il parto fisiologico. “È vero che mancano delle Linee guida italiane sulla intrapartum care, come già ci sono per la gravidanza fisiologica e per il taglio cesareo. Però questo non significa che gli operatori in sala parto agiscano senza cognizione di causa, perché esistono comunque linee guida internazionali alle quali fare riferimento”. Per esempio le linee guida del NICE (Istituto nazionale per l’eccellenza clinica del Regno Unito), ma anche le linee guida dell’American congress of obstetricians and gynecologists, quelle canadesi, quelle australiane.
L’importanza dell’ostetrica (e dell’ambiente)
Senza contare che qualche indicazione operativa ufficiale c’è anche nel panorama italiano. Le linee guida sul taglio cesareo, per esempio, affermano chiaramente (e sulla base di evidenze scientifiche) che “un sostegno emotivo continuo in travaglio di parto riduce la probabilità di taglio cesareo e di parto operativo”. Spiega Anita Regalia: “Si tratta in pratica di attuare il modello one-to-one, un’ostetrica dedicata per ogni partoriente. Una professionista non solo in grado di capire come stanno le cose, ovviamente sapendo cogliere i minimi indizi di ogni eventuale spostamento dalla fisiologia alla patologia, ma anche in grado di raccogliere e tutelare le emozioni della donna, garantendo un ambiente intimo e tranquillo. Ed evitando l’andirivieni di personale che c’è spesso in sala parto, che di sicuro non aiuta”. A sentire certi racconti di parto sembra fantascienza, ma invece si può fare. “Ci sono strutture in cui questo modello è realtà” dichiara Maria Vicario, presidente della Federazione nazionale dei collegi delle ostetriche. “Strutture in cui le ostetriche sono viste come una risorsa e non come una spesa, in cui viene garantita la formazione, in cui l’organizzazione del lavoro è tale da permettere davvero un rapporto uno a uno”. Ovviamente, perché questo modello virtuoso si diffonda occorre una dotazione adeguata dell’organico in tutti i punti nascita. “Cioè occorrono investimenti” prosegue Vicario. “E il disegno di legge proposto invece cosa fa? Prevede investimenti per dispositivi di non provata efficacia, non certo a costo zero”.
Migliorare la situazione, in modo evidence-based!
E comunque: anche se mancano linee guida nazionali, un modello organizzativo c’è. “È quello indicato nel 2010 dall’allora ministro della salute Ferruccio Fazio, il cosiddetto decalogo Fazio, ratificato in Conferenza Stato-Regioni” precisano Vicario e Donati. “È il modello, per intenderci, che ha previsto la chiusura dei punti nascita di piccole dimensioni, la distinzione tra gravidanza fisiologica e patologica, la promozione dell’ostetrica quale figura di riferimento assistenziale per la fisiologia, l’integrazione territorio-ospedale, la formazione continua dei professionisti. Certo, questo non significa che sia stato attuato ovunque: sicuramente c’è bisogno di lavorarci di più e di implementarlo, ma è un buon punto di partenza”.
Come pure sono descritti in letteratura vari interventi che si sono rivelati davvero efficaci nel ridurre il ricorso al taglio cesareo. “Di recente, il Portogallo ha adottato una politica di riorganizzazione dei punti nascita e di remunerazione differenziata dei tagli cesarei, con penalizzazione oltre una certa soglia, che si è mostrata rapidamente utile” spiega Anna Locatelli, professore associato all’Università di Milano Bicocca e direttore dell’Ostetricia e ginecologia dell’Ospedale di Carate Brianza, una struttura in cui il tasso di tagli cesarei nel 2013 è stato pari al 14%, contro il 36,3% della media nazionale “Del resto, il tasso elevato di cesarei che si riscontra nel nostro paese è un fenomeno molto complesso, non credo proprio che una soluzione semplicistica come quella proposta – che per di più tiene conto solo di una fase, per quanto importante e delicata – possa cambiare il trend”.
Insomma, la sensazione è che se da un lato ci sono ancora ampi margini per migliorare la situazione delle nascite nel nostro paese (sia sul fronte assistenziale, per quanto riguarda l’organico, la formazione, l’organizzazione, sia per esempio per quanto riguarda la cultura della libera scelta della donna, come chiesto dall’associazione Freedom for Birth), dall’altro va riconosciuto che sul fronte sicurezza molto è stato fatto: ci sono all’attivo varie esperienze cliniche significative e tanta buona ricerca scientifica. Sarebbe bello che i decisori politici prendessero ispirazione da lì, da esperienze di documentata efficacia, per avanzare le loro proposte di legge.
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