Più che un film, uno spot: The Martian è nei cinema italiani
Il film di Ridley Scott girato con la consulenza NASA si rivela un quasi-Western sempliciotto che non convince
ARTE, MUSICA E SPETTACOLI – L’accostamento del nome di Ridley Scott, regista di capolavori del cinema di fantascienza come Blade Runner e Alien, con la storia di esplorazione marziana scritta da Andy Weir – libro inizialmente autopubblicato e poi grande successo editoriale globale – ha fatto sperare molti fan e gli appassionati di spazio. La collaborazione della stessa agenzia spaziale americana con la produzione ha fatto pensare che ci si potesse trovare di fronte a un film che raccontasse in maniera piuttosto realistica come potrebbe essere un futuro viaggio umano verso il Pianeta Rosso. Sopravvissuto – The Martian delude sotto entrambi gli aspetti, trasformando il potenziale originario in un’avventura problem solving con uno scarso tasso di dramma, che spinge l’acceleratore su di un generico ottimismo nelle capacità degli esseri umani di superare gli ostacoli.
Mark Watney (Matt Damon) è uno dei sei astronauti che a bordo dell’Ares III hanno raggiunto Marte per la prima missione umana sul pianeta. Stanno svolgendo le proprie attività di ricerca quotidiana, in un clima da campo di boyscout, quando all’orizzonte si profila una tempesta talmente potente da superare il livello di guardia, motivo per cui il protocollo prevede di abortire la missione e cominciare il lungo viaggio di ritorno a casa. La situazione precipita velocemente e nel tentativo di raggiungere il veicolo Mark viene colpito da alcuni detriti dell’antenna di comunicazione che lo fanno sparire alla vista degli altri e dei monitor biometrici. Creduto morto, il capitano Melissa Lewis (Jessica Chastain) dà l’ordine di partire. Ma, come sappiamo già dal trailer, Mark è sopravvissuto e dovrà trovare modo di resistere in solitudine, novello Robinson Crusoe, riuscendo a produrre cibo per i quattro anni che lo separano dall’arrivo sul cratere Schiaparelli della prossima missione Ares.
A differenza di una certa tradizione hollywoodiana di film in cui il protagonista deve affrontare in solitudine la prova della sopravvivenza, il Watney/Crusoe di Sopravvissuto ha come freccia al proprio arco il pensiero razionale. Il botanico Watney sembra essere il simbolo di un passaggio di sensibilità nell’immaginario collettivo: meno Rambo, meno Armageddon o Space Cowboys e più nerd, più Big Bang Theory. I problemi si affrontano smontandoli e ragionando, strategia simboleggiata dalle sequenze in cui Mark compila liste di risorse alimentari, si ingegna per creare una serra per coltivare le patate su Marte.
Quello che risulta incredibile, in un personaggio che non è muscolare o sbruffone, è che non abbia (o almeno non li vediamo) cedimenti psicologici. In fin dei conti sarebbe umano sentirsi abbandonato e dubitare del proprio futuro. Ma è un pensiero che Scott e lo sceneggiatore Drew Goddard preferiscono lasciare a Vincent Kapoor (Chiwetel Ejiofor), uno dei dirigenti NASA che a Terra si organizzano per aiutare Watney. Certo, il cinema prevede sempre una certo grado di sospensione dell’incredulità di fronte a quello che vediamo sullo schermo e questo può essere uno di quei casi in cui si chiede troppo allo spettatore. O forse è il segno di un cambiamento dei tempi, per cui l’eroe di oggi è razionale laddove pochi anni fa sarebbe stato semplicemente una “macchina da guerra”.
Della scienza esce un ritratto realistico, ma solo a tratti. Scott e Goddard sono bravi a rappresentare l’impresa spaziale come il risultato del lavoro di immensi gruppi di ricercatori, ingegneri e tecnici. Ci sono i controllori di volo di Houston, gli esperti di tecnologia spaziale del JPL di Pasadena, ci sono gli attuali concorrenti del programma spaziale cinese. Ma lo stratagemma decisivo per la risoluzione del film (non sveliamo niente) non viene raggiunto con il lavoro di gruppo, attraverso la discussione e il confronto, ma attraverso il più classico degli “Eureka!” lanciato da un esperto di astrodinamica. È una tentazione che abbiamo già riscontrato tante volte nel cinema (vedi alla voce La teoria del tutto), ma che ci si poteva aspettare che la collaborazione con la NASA avrebbe potuto mettere da parte.
Anche sul fronte della tecnologia, non tutto fila liscio. Vero che molte delle cose che si vedono sullo schermo sono rappresentazioni di progetti reali della NASA, come raccontano loro stessi, ma ci sono comunque alcuni passaggi che, forse per semplici esigenze di far quadrare il tutto dal punto di vista filmico, sono fragili. Per esempio, con tutta la grande tecnologia a disposizione di Watney e soci, il sistema migliore per andare dall’Hab (la base dove vivono e lavorano su Marte) al MAV (il veicolo che li riporterà verso la nave Ares III) è uscire a piedi nel mezzo della tempesta? Possibile che non si sia pensato a nessun sistema di segnalazione del percorso con luci, funi, altri stratagemmi?
C’è poi l’aspetto dell’acqua, elemento fondamentale nella narrazione di Sopravvissuto. Ma a fronte dei continui annunci della presenza di acqua su Marte, si poteva dedicare qualche minuto a spiegare perché l’astronauta se la procuri con un complesso processo chimico a partire dal combustibile del MAV. Forse è solo un dettaglio, ma per chi segue le ricerche sul nostro sistema solare, la situazione non può non far affiorare un sorriso.
Alla fine delle oltre due ore di proiezione (forse si poteva asciugare qualche passaggio), che cosa rimane? Dal punto di vista cinematografico, il film riesce a metà. La mano di Ridley Scott è ancora sicura e ci mostra un Marte estremamente bello dal punto di vista estetico. Manca, però, la tensione necessaria a tenere vivo il rapporto empatico tra spettatore e protagonista. Alla fine parteggiamo per Watney, ovvio, ma è troppo ottimista e fiducioso da poter sembrare un Candide voltairiano. Dal punto di vista della NASA, invece, crediamo che il messaggio pubblicitario sia forte e chiaro: stiamo per andare su Marte con dei nostri ragazzi, ma non dovete preoccuparvi, perché qualsiasi cosa accada li riportiamo sempre tutti a casa. Consolatorio, ma forse semplicistico.
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