“Volare”, il mondo piumato di Noah Strycker
Per la prima volta l'ornitologo statunitense arriva anche in Italia, con un racconto sugli uccelli del mondo attraverso due occhi esperti che mai hanno smesso di esserne affascinati.
LIBRI – Che si trattasse di farsi strada in mezzo a un “muro” di pigoscelidi di Adelia, o di trascinare nel suo giardino in Oregon la carcassa di un cervo per attirare – e osservare – gli avvoltoi collorosso all’opera mentre la divorano minuziosamente fino all’osso, la vita di Noah Strycker è stata costellata di straordinari incontri con gli uccelli.
Strycker è ornitologo, scrittore, fotografo, e va molto fiero di un record che ha conseguito nel 2015: nel giro di un anno, 365 giorni esatti, ha avvistato 6042 diverse specie di uccelli in 41 Paesi, girando tutti e sette i continenti. Quanti sono 6042 uccelli? Più della metà delle specie aviarie sul pianeta.
Con il suo Volare (Codice Edizioni 2017, 246 pagine, 24 €) la traduzione di The thing with feathers, ora Strycker è arrivato per la prima volta anche in Italia a condividere la sua passione, le sue conoscenze e un indomito spirito da bird watcher che emerge inconfondibile quando scrive che “fortunatamente per noi, gli uccelli sono ovunque. A noi non resta che guardarli”. Con tredici capitoli raccolti in tre sezioni – Corpo, Mente e Spirito – che abbracciano a tutto tondo il mondo degli uccelli.
Tramite un approccio condiviso con altri autori molto apprezzati che si occupano del comportamento e della mente degli animali – Frans de Waal tra tutti – anche Strycker ci ricorda che più la scienza fa passi avanti più ci rendiamo conto che l’aspetto sul quale concentrarci non dovrebbe essere la nostra unicità, peraltro sempre più in discussione, quanto invece gli elementi che ci accomunano alle altre specie. Anche quelle che ci sembra abbiano con noi meno da spartire, perché se immedesimarsi in un pavone può piacere, difficilmente qualcuno si sentirà affine agli avvoltoi che l’autore ama così tanto. E che descrive con dovizia di particolari.
Di fatto, racconta Strycker nelle sue pagine, questi uccelli si defecano abitualmente lungo le zampe per ricavarne un duplice vantaggio: mentre le feci evaporano raffreddano il loro corpo, trovando una soluzione alternativa all’assenza di sudore, e allo stesso tempo “sterilizzano” quelle zampe così spesso immerse nelle più sanguinolente e marce interiora. Brulicanti di batteri. Per non parlare dello stomaco degli avvoltoi, in grado di trasformare e rendere innocue addirittura le spore di antrace e che in combinazione con il sistema immunitario si occupa anche di altri nemici per noi inquietanti, come il botulino.
Nel libro non mancano i rimandi agli uccelli più noti della ricerca scientifica, per esempio le nocciolaie di Clark che fanno incetta di cibo o i pappagalli che danzano a ritmo e hanno dato il “la” agli studi sulla biomusicologia. Ma trovano spazio soprattutto piumati meno noti, le cui capacità potrebbero essere sfuggite anche a chi non è digiuno del tema. Ma uno degli aspetti più piacevoli è che, alla dovizia di particolari sulle specie, Strycker associa il racconto dei suoi avvistamenti, fermando il tempo nella descrizione di momenti che sembrano più un rendez-vous tra vecchi amici che l’accidentale incontro tra un ornitologo e un uccello. Come gli è successo con un gufo delle nevi.
In primo piano, con gli occhi gialli dell’estate artica e il corpo bianco dell’inverno del Nord, c’era un immacolato gufo delle nevi, intento a scrutare con feroce intensità e un pizzico di curiosità. Ci soppesammo a vicenda per qualche minuto: l’uccello stava sulla sua ceppaia preferita e io, con gli stivali quasi completamente immersi nel fango, scattai un paio di foto. La livrea pressoché tutta bianca indicava che, con ogni probabilità, doveva trattarsi di un maschio adulto.
Quando ingrandii per vedere se le mie immagini erano nitide, ebbi modo di notare alcune macchie di sangue sul petto bianco del gufo. «Hai un rimasuglio del pranzo sul mento», osservai. Il gufo chiuse gli occhi e si concesse un pisolino.
Proprio come (più) spesso accade quando si parla di ominidi, nel raccontare i suoi amati uccelli Strycker trova in loro le caratteristiche e lo spirito di alcuni di noi, come il romanticismo, la creatività, il desiderio di viaggiare.
I gufi delle nevi per esempio sono dei maestri di wanderlust, un termine oggi molto in voga tra chi fa del viaggio uno stile di vita e una brama insopprimibile, ma che ha radici etimologicamente più antiche (risale agli apprendisti della Germania medievale che facevano fagotto per far pratica come artigiani) e sopravvive anche con un’accezione più tradizionale. Così l’instancabile viaggiare dei gufi delle nevi diventa il “walkabout” degli aborigeni australiani, o il “rumspringa” degli Amish. Una peregrinazione.
Nelle reazioni degli uccelli – nella loro assenza – Strycker vede stati d’animo e personalità evidenti. Come i pinguini “incapaci di nutrire rancore”, perché dopo essere stati presi in grembo e manipolati come un gatto sono perfettamente calmi al momento del rilascio, e così rimangono. Che si parli degli enormi stormi di storni sopra Roma o di microscopici e frenetici colibrì, una cosa è evidente e l’autore non la nasconde: pensa di poter capire cosa significa essere un uccello. E terminata la lettura potreste ritrovarvi d’accordo con lui.
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