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Gli animali sono curiosi?

Se pensiamo alla vita animale come una serie di eventi volti a sopravvivere e riprodursi, curiosare è un comportamento costoso (e pericoloso). Ma permette anche di capire ciò che non si conosce: potrebbe tornare utile in futuro

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Due cervi curiosi scrutano il fotografo che li sta immortalando nello Yosemite National Park. Fotografia di Rennett Stowe, Wikimedia Commons, CC BY 2.0

APPROFONDIMENTO – Gli animali possono essere curiosi? Possono esplorare qualcosa per il solo gusto di “saperne di più”, di conoscere qualcosa di nuovo anche senza un immediato beneficio? Chiunque abbia un animale domestico risponderà subito di sì, senza alcun dubbio. Gatti che entrano nella lavatrice, piccoli roditori che si infilano nei meandri di casa, cani che impazziscono per annusare ogni cosa. Ma le risposte a certe domande, specialmente parlando di comportamento animale, non possono arrivare dagli aneddoti. E per quanto ci piacerebbe risolverla così, le origini di un comportamento curioso devono essere qualcosa di più complesso di un “gene della curiosità” negli antenati dei moderni felini domestici.

Se pensiamo per esempio alle motivazioni di un ratto o di uno scimpanzé, nei termini della sopravvivenza, capiamo subito che curiosare è costoso. Il tempo impiegato per indagare la novità è sottratto alla ricerca di cibo, al necessario riposo, al corteggiamento di un partner o all’allevamento dei piccoli, dunque alla sopravvivenza. Per di più l’oggetto apparentemente innocuo che ha attirato la nostra attenzione potrebbe essere un predatore e noi rischieremmo di finire mangiati. Non a caso un proverbio recita che “la curiosità uccise il gatto”.

Eppure gli scienziati che studiano il comportamento e le capacità cognitive degli animali sono piuttosto favorevoli all’idea di attribuire loro una curiosità “fine a sé stessa”, o meglio, un’esplorazione del mondo anche quando non implica una ricompensa o un vantaggio immediati. Tra questi c’è Richard Byrne della School of Psychology and Neuroscience alla University of St Andrews, che ha dedicato la sua intera carriera allo studio dell’evoluzione del comportamento sociale e cognitivo. Concentrandosi sulle origini di quelle caratteristiche che tendiamo spesso a etichettare come solo umane, per esempio l’insight: quando ci si “accende la lampadina” e risolviamo un problema di getto, come se il nostro cervello avesse ragionato senza renderci partecipi del lavoro (sì, pare che anche gli animali abbiano momenti-eureka).

Secondo Byrne i ratti sono uno degli esempi più brillanti di come la curiosità possa rivelarsi utile, nonché una specie che ci permette di speculare al riguardo a fronte di esperimenti controllati. Sono animali generalisti, che si adattano facilmente a nuovi ambienti e fonti di cibo proprio grazie alla loro tendenza a esplorare. Per loro come per le specie invasive in generale, esplorare l’ignoto può favorire la colonizzazione di nuovi territori, garantire più occasioni di riprodursi e, alla fine, portare a un aumento nel numero di figli. I rischi vengono ragionevolmente compensati dai benefici: scopri cose e posti nuovi, sopravvivi, ti riproduci, trasmetti i tuoi geni alla generazione successiva.

Uno degli esperimenti più famosi condotti agli albori della psicologia comparata consisteva nell’introdurre alcuni ratti sazi in un labirinto, lasciarli esplorare e tirarli fuori, per poi rimetterceli una volta che gli fosse venuta fame. Al secondo tentativo i ratti sapevano bene dove andare, perché nella prima esplorazione, seppur a pancia piena, avevano già identificato un pezzetto di formaggio. Accumulare informazioni nella propria memoria è relativamente poco costoso, dice Byrne in un saggio dedicato proprio alla curiosità animale, “e non sai mai quando un po’ di conoscenza extra potrebbe tornarti utile: per esempio quando uno psicologo ti toglie il cibo all’improvviso, e ti rimette in quel labirinto in cui casualmente avevi notato del formaggio…”.

La curiosità animale, come la capacità di risolvere problemi per insight, potrebbe essere legata alla capacità di muoversi non solo nello spazio ma anche nel tempo. In che senso? Se i ratti dell’esperimento sapevano cosa c’era (il formaggio) e dove (in un braccio del labirinto), molte specie hanno dimostrato di poter includere nel meccanismo anche il quando, ovvero di possedere una memoria episodica. In sostanza, quella che ci permette di ricordare: “Ieri sono andato al bar a bere un caffè.” Quando, dove, che cosa. A lungo si è pensato che gli animali non fossero in grado di pianificare il futuro, di “muoversi mentalmente” lungo la linea del tempo per usare quell’informazione nei contesti più diversi. Ma sempre più esperimenti hanno mostrato che non potevamo essere più lontani dalla realtà: le ghiandaie della california (il più famoso esempio) seppelliscono le loro scorte in vista della stagione fredda e ritornano sul posto a recuperarle seguendo un ordine molto preciso. Le prime a essere state seppellite sono anche le prime a dover essere mangiate. Se vogliamo, è un po’ come quando pianifichiamo i nostri pasti per evitare che il cibo in frigorifero vada a male.

Ma non serve entrare nei laboratori di neuro-etologia o psicologia comparata per avere altri esempi di quella che sembra essere proprio pura, semplicissima curiosità. Ogni settimana escono nuovi studi riguardo alle abilità cognitive degli animali, e continuamente la creatività degli scienziati in questo campo è stimolata da video che ritraggono le specie più disparate fare cose tipo… questa.

Pensiamo poi ai cani, che seguono piste ed esplorano odori nuovi senza che vi sia un’immediata utilità (né una ricompensa, se non saperne di più) al pari di quanto fanno gli elefanti, che mentre si nutrono non perdono occasione di dare un’occhiata alle feci o alle urine di altri pachidermi per avere maggiori informazioni. Certo, sul lungo termine quella singola annusata potrebbe portare alla creazione di rapporti sociali utili. Ma non nell’immediato presente. In un certo senso la curiosità negli animali è tale e quale al gioco: costosa per le energie spese, pericolosa e, nell’immediato, apparentemente senza senso (tempo fa ne abbiamo parlato in podcast con il neuroetologo Giorgio Vallortigara). Eppure sappiamo che dal gioco gli animali imparano a conoscere i loro compagni gettando le basi per future alleanze, si esercitano a lottare e molto altro. Se si divertano o meno è una delle domande che intrigano gli esperti – non immuni al fascino di comportamenti che ancora non abbiamo compreso del tutto – ma video come quello dei panda rossi che giocano sulla neve allo Zoo di Cincinnati paiono piuttosto eloquenti.

Lo studio della curiosità negli animali non è di gran moda, oggi, ma l’idea alla base non è recente: già nel 1966 gli psicologi Stephen Glickman e Richard Sroges avevano provato a misurarla in varie specie ospitate in uno zoo, pubblicando i risultati sulla rivista Behaviour. Hanno sottoposto oltre 200 animali a un set di oggetti nuovi, personalizzati in base alle diverse specie e posizionati all’interno dei recinti. L’interesse veniva misurato calcolando il tempo impiegato a studiare gli oggetti e annotando in che modo gli animali provavano a manipolarli.

L’esperimento ha mostrato che i primati e i carnivori sembravano più interessati a investigare la novità rispetto ai roditori, che 20 diverse specie di rettili non erano affatto interessate – fatto salvo per un coccodrillo dell’Orinoco – e che gli individui sub-adulti sembravano in generale un po’ più ricettivi rispetto agli adulti. Il formichiere gigante ha esplorato gli oggetti sfruttando la sua lunga lingua, le scimmie ragno la coda e il guanaco le labbra. Ma come possiamo sapere se l’esperimento degli oggetti – o un qualsiasi altro tipo di indagine disegnata allo stesso scopo – è adatto a stimolare l’interesse di una specie? Come facciamo a studiarla, questa curiosità? Volendo fare un paragone con quella umana, la curiosità scatta nel momento in cui non conosciamo qualcosa e cerchiamo di rimediare. Esplorando l’ignoto anche in modo acritico e pericoloso: per esempio quando clicchiamo link sconosciuti nelle email o nelle chat di Facebook, spinti da un’irragionevole voglia di sapere.

Per di più quando gli animali falliscono un test cui sono stati sottoposti, spesso il vero errore sta nel test. Che non è in grado di stimolare le caratteristiche etologiche della specie, non riesce a rappresentare un compito in cui per quella specie abbia davvero senso cimentarsi. O peggio: è noioso. Un esempio brillante in questo senso lo fa il primatologo Frans de Waal nel suo ultimo libro “Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?” (Raffaello Cortina Editore, 2016, 29€). Raccontando le differenze tra etologia e comportamentismo, de Waal scrive

“Una cosa che imparai nel laboratorio dei test fu che non sempre un’intelligenza superiore garantisce risultati migliori. Noi presentammo sia a scimmie reso sia a scimpanzé un compito semplice, noto come test di discriminazione aptica (di riconoscimento di oggetti attraverso il tatto). I soggetti dovevano infilare una mano attraverso il buco per sentire correttamente la differenza tra le due forme e prendere l’oggetto giusto. Il nostro obiettivo era quello di fare centinaia di prove per ogni sessione; ma, benché la cosa avesse funzionato bene con i macachi reso, gli scimpanzé si dimostrarono molto meno concilianti. Essi facevano bene nella prima dozzina di prove, mostrando che la discriminazione non poneva loro alcun problema; ma poi la loro attenzione si spostava su altre cose. Spingevano le mani più avanti nel buco in modo da toccarmi, da tirarmi per gli abiti, facendo smorfie, battendo sul vetro che ci separava e cercando di coinvolgermi nel loro gioco. Saltando su e giù facevano gesti verso la porta, come se io non sapessi come fare per andare da loro. A volte, in modo poco professionale, entravo e andavo a divertirmi con loro. Non occorre dire che le prestazioni fornite dagli scimpanzé nel compito che sottoponevamo loro erano molto inferiori a quelle dei macachi, non certo a causa di una inferiorità intellettuale, bensì perché il test li annoiava, non essendo adeguato al loro livello intellettuale.”

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Nella vecchiaia restano solo gli amici più cari. Siamo l’unica specie così selettiva?

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".