Nella vecchiaia restano solo gli amici più cari: siamo l’unica specie così selettiva?
Con il passare del tempo investiamo le risorse solo nei rapporti più preziosi. Anche le bertucce si comportano così, ma per quanto ne sappiamo non sono consapevoli dell'avvicinarsi della morte: perché lo fanno?
SCOPERTE- “La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”. Se avete visto La Grande Bellezza, il film del regista Paolo Sorrentino su una Roma in bilico tra antico splendore e moderno squallore, la citazione non vi sarà nuova. E qualsiasi sia la vostra età, probabilmente avete pensato che è un’ottima strategia per non sprecare tempo e risorse.
Con l’incombente minaccia del memento mori, invecchiando tendiamo a diventare più selettivi. Dedichiamo meno tempo alle cose, ma anche alle persone, che giudichiamo poco importanti. Così il numero di amici si restringe e spesso si ritira a piccola cerchia di compagni fidati; quelli che conosciamo bene e che sono ancora capaci di portare valore nella nostra vita. Siamo l’unica specie che si comporta così? Come affrontano l’invecchiamento gli altri primati, che -per quanto ne sappiamo- non sono consapevoli del tempo che passa né dell’avvicinarsi della morte?
Secondo Laura Almeling del German Primate Center di Gottinga, in Germania, anche le bertucce (Macaca sylvanus) diventano più selettive con il passare del tempo. Pochi giorni fa Almeling e i suoi colleghi hanno pubblicato il resoconto di una serie di indagini sperimentali e comportamentali su questa specie sulla rivista Current Biology. Non si tratta solo di una nuova somiglianza tra noi e gli altri primati, ma di una nuova prospettiva evolutiva sull’invecchiamento: l’ipotesi affascinante, proposta dai ricercatori, è che ci sia un meccanismo fisiologico che spinge noi e i nostri “cugini” primati a scegliere le amicizie con più cura.
“Un’importante teoria psicologica suggerisce che gli umani diventano socialmente più selettivi quando sanno che il tempo che rimane loro è limitato, come accade durante la vecchiaia”, spiega Almeling in un comunicato. “Noi assumiamo che le scimmie non siano consapevoli del tempo limitato che le attende nel futuro. Proprio per questo motivo, se mostrano dei cambiamenti motivazionali quando invecchiano, la loro selettività non può essere attribuita al fatto che sanno di avere poco tempo. Dovrebbe stuzzicarci, invece, la possibilità che ci siano dei cambiamenti fisiologici che accomunano scimmie e umani anziani e che li rendono più selettivi”.
La teoria di cui parla l’esperta è quella della socioemotività selettiva, elaborata dalla psicologa di Stanford Laura Carstensen, secondo la quale non solo diventiamo più selettivi con il tempo, ma prediligiamo le informazioni positive a quelle negative (il positivity effect, anche se al riguardo ci sono indizi di risultati contrastanti tra le diverse culture). L’intero fenomeno, continua la teoria, non riguarda solo il nostro comportamento sociale, ma comporta differenze osservabili anche nell’attività del nostro cervello. Con meccanismi cognitivi di controllo che, via via che invecchiamo, “scelgono” di dare la precedenza alle informazioni positive.
Ne La Forêt des Singes, a Rocamadour, Almeling ha osservato il comportamento di oltre cento bertucce di età differenti, studiando come cambiava il loro interesse in ambienti sociali e non. Per valutare la curiosità delle scimmie, i ricercatori hanno mostrato loro oggetti nuovi e mai visti prima: alcuni animali di pezza, un cubo pieno di frammenti colorati immersi in un liquido viscoso, un tubo opaco con all’interno un pezzetto di cibo. Iniziata l’età adulta, le scimmie già perdevano interesse per gli oggetti nuovi, e invecchiando continuavano a degnare d’attenzione solo il tubo, perché sapevano che conteneva qualcosa da mangiare.
Per testare l’interesse sociale delle bertucce, invece, gli scienziati hanno mostrato loro le immagini di scimmie neonate, scimmie “amiche” e “non amiche”, oltre a riprodurre i richiami acustici di entrambe le categorie. Così hanno potuto misurare quanto a lungo interagivano con i diversi tipi di stimoli, quanto tempo (dunque risorse) investivano nei rapporti.
Così hanno scoperto che le scimmie più anziane rimanevano interessate alle altre, specialmente quelle socialmente importanti, e continuavano a rispondere con vocalizzazioni a membri del gruppo vicini a loro. Allo stesso tempo, però, si facevano coinvolgere in molte meno interazioni, nonostante i compagni continuassero a investire il loro tempo con loro. L’aspetto interessante è, dice Almeling, è che invecchiando non perdevano interesse nei confronti di quanto stava succedendo nel loro gruppo, ne seguivano “la socialità”, ma interagivano sempre meno e con sempre meno compagni, selezionando quelli “più meritevoli”. Se uno di questi urlava una richiesta d’aiuto, erano molto solerti nel dargli una mano. Un po’ come facciamo noi, che coltiviamo le amicizie che si sono dimostrate leali, disinteressate, fedeli, o che portano qualche vantaggio.
Non si tratta di una perdita di interesse nei confronti degli altri, dunque. “I cambiamenti nel comportamento sociale di scimmie e umani potrebbero essere dovuti all’assenza di una prospettiva di tempo limitata, e probabilmente sono profondamente radicati nell’evoluzione dei primati”, commenta Alexandra Freund, co-autrice dello studio. La collega Julia Fischer è d’accordo, e suggerisce che “forse le scimmie più anziane trascorrono meno tempo a socializzare perché trovano queste interazioni via via più stressanti. Dunque le evitano”. Un approccio per capire meglio anche quest’aspetto potrebbe essere indagare l’invecchiamento della specie anche nelle performance cognitive. Il che permetterebbe di guardare in parallelo cosa comporta invecchiare per specie diverse. Una tra tutte, il cane, in un certo senso è molto simile a noi ed è un ottimo esempio: più Fido invecchia, più tempo impiegherà a imparare nuovi comandi e comportamenti che un cane giovane apprenderebbe rapidamente.
Gli studi di psicologia comparata, in questi caso, potrebbero tornare utili seguendo un “percorso inverso”. Se normalmente i modelli animali ci aiutano a comprendere aspetti della mente e del comportamento umani difficili da studiare direttamente su di noi, nell’ambito della selettività sociale potrebbero essere gli studi umani a fornire spunti a quelli per primati diversi. Sappiamo ad esempio che negli anziani il positive effect “funziona” di fronte alle informazioni scritte, dunque prediligono ed elaborano diversamente quelle positive rispetto a quelle negative, ma non è lo stesso per le immagini. Con le fotografie, infatti, il cervello anziano si comporta diversamente: di fronte a quelle negative c’è un’attivazione meno intensa dell’amigdala -la parte che gestisce le emozioni- e più intensa della corteccia prefrontale mediale. Con le parole accade l’esatto contrario, il che ha portato gli scienziati a pensare che il positivity effect (e forse anche la selettività?) scaturisca da modifiche nell’attività della PFG legate all’età. Capire meglio cosa succede nel cervello degli altri primati potrebbe aiutarci a confermare l’ipotesi di Almeling e dei suoi colleghi, ovvero cambiamenti fisiologici che li accomunano a noi rendendoli più selettivi da anziani.
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