I grandi predatori, gli oceani e il climate change
Non solo shark culling in Australia: uccidere i grandi predatori senza alcun criterio di sostenibilità avrà effetti a lungo termine sul clima. Dopo le opinioni, arrivano gli studi scientifici
AMBIENTE – Tra il luglio 2014 e il giugno 2015, solamente nelle acque del Queensland australiano, sono stati catturati uccisi 621 squali. Lo shark culling (implementato lo scorso anno dal governo australiano) per proteggere i bagnanti sulle spiagge ha riempito per mesi le pagine dei giornali, dividendo l’opinione pubblica in feroci dibattiti tra i sostenitori e chi ritiene l’uso delle cosiddette drum lines una pratica crudele e inaccettabile.
Dopo l’opinione sono arrivati gli studi scientifici, che mettono in guardia: se durante l’estate l’Università del Queensland avvertiva sull’impossibilità di stabilire le conseguenze ambientali dello shark culling a lungo termine, ora su Nature Climate Change si comincia a farlo guardando a un quadro più ampio. Continuare a uccidere i grandi predatori marini come gli squali, ignorando ogni criterio di sostenibilità, contribuisce al cambiamento climatico. Lo spiegano i ricercatori dell’Australian Rivers Institute della Griffith University, guidati da Peter I. Macreadie.
Perdere un gran numero di specie nella rete trofica compromette la capacità degli ecosistemi di sequestrare e immagazzinare il carbonio a lungo termine: c’è perciò un motivo in più per mantenere intatte le popolazioni di grandi pesci come gli squali, spiega Rod Connolly, uno degli autori, cioè il fatto che sono fondamentali per l’accumulo di carbonio negli habitat costieri come le paludi salmastre, le paludi di mangrovie e le praterie di posidonie. “Questi predatori hanno un effetto a cascata sulla catena alimentare e sull’ecosistema nel suo complesso; un impatto che cambia considerevolmente la quantità di carbonio che viene catturata e ‘imprigionata’ nei fondali”, spiega lo scienziato, carbonio estratto dall’atmosfera che viene seppellito nel fango per centinaia, anche migliaia di anni.
Tutti questi equilibri vengono a mancare nel momento in cui l’assenza dei grandi predatori cambia il numero degli animali più piccoli che vivono sui fondali e, di conseguenza, porta con sé effetti a lungo termine sull’accumulo di carbonio negli habitat costieri. Gli stessi habitat che, spiega Connolly, ogni anno sottraggono all’atmosfera qualcosa come mille miliardi di chilogrammi di carbonio.
Anche le balene, ne parlavamo qualche tempo fa, svolgono un ruolo fondamentale in questo senso: la diretta conseguenza della loro presenza estesa negli oceani è un’enorme distribuzione dei nutrienti nelle acque, una distribuzione che fa proliferare gli organismi marini come il fitoplankton e, di conseguenza, aumenta l’assorbimento di carbonio di origine antropica. Ma anche per le balene c’è un tasto dolente, come lo è lo shark culling australiano per gli squali: si tratta della caccia di balene a lungo dichiarata “a fini scientifici” da parte del Giappone, ripresa anche quest’anno, in settembre, a nord dell’Hokkaido. Paradossalmente questa stessa caccia ai cetacei era stata segnalata proprio dal governo australiano alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, nel 2014, in quanto illegittima e priva di scopi scientifici.
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