RICERCANDO ALL'ESTERO

Sconfiggere il cancro stimolando il sistema immunitario

La terapia genica CART sta avendo ottimi risultati nella cura di alcune forme di leucemie. Sfrutta il sistema immunitario per combattere i tumori

picture_MarcoRuellaRICERCANDO ALL’ESTERO – “La cosa più nuova, più efficace, più eccitante che c’è adesso nel mondo dell’oncologia è l’immunoterapia, ossia l’utilizzo del sistema immunitario del paziente per combattere il cancro. Ci sono molti modi per farlo, quello di cui ci occupiamo noi consiste in una terapia cellulare. E, francamente, è la cosa più figa al mondo”.

Nome: Marco Ruella
Età:
33 anni
Nato a: Moncalieri (TO)
Vivo a: Filadelfia (Stati Uniti)
Specializzazione medica in: Ematologia (Torino)
Ricerca: Immunoterapia per il trattamento di leucemie e linfomi.
Istituto: Center for Cellular Immunotherapies, Perelman School of Medicine
Interessi: arte, giocare a calcio.
Di Filadelfia mi piace: c’è gente di tutto il mondo.
Di Filadelfia non mi piace: il degrado sociale e le differenze tra chi sta bene e chi sta male.
Pensiero: Festina lente (Svetonio). Ovvero affrettati con lentezza, datti da fare ma fermati a riflettere sulle decisioni da prendere.

In che cosa consiste l’immunoterapia?
Si tratta di un insieme di metodi usati per combattere diverse patologie sfruttando la risposta immunitaria. In campo oncologico l’immunoterapia rappresenta una nuova era: il sistema immunitario è la cosa più potente che esiste perché è ciò che la natura ci ha dato per combattere i tumori e le infezioni. Esistono diversi approcci, da un lato quello di cui si occupa il gruppo in cui lavoro, cioè la terapia cellulare, dall’altro gli immune checkpoint inhibitors, o inibitori del checkpoint immunitario, ovvero anticorpi monoclonali in grado di riattivare il sistema immunitario contro i tumori.

Per quanto riguarda le terapie cellulari, c’è un metodo che sta avendo molto successo e che si chiama CART, Chimeric Antigen Receptor T Cell. L’idea di base l’ha avuta circa trent’anni fa in Israele Zelig Eshhar, e consiste nel creare una proteina sintetica, quindi artificiale, in grado di cambiare l’attività dei linfociti T. La parola chimeric sta a indicare che questa proteina è formata dall’unione di due molecole differenti: un anticorpo, specifico per quello che vogliamo, e il TCR (T-cell receptor), che è il recettore presente sui linfociti T coinvolto nel riconoscimento degli antigeni.
Circa 5 anni fa, Carl June, il direttore del Centro in cui lavoro, ha pensato di usare questa tecnica per trattare i pazienti affetti da leucemia. Per questo è stata messa a punto una proteina CAR (Chimeric Antigen Receptor) specifica per un particolare antigene, chiamato CD19, espresso nelle leucemie e linfomi a cellule B. Il legame tra CAR e CD19 attiva il linfocita T che inizia a uccidere le cellule tumorali, proliferare e stabilire una memoria immunologica.

È una terapia genica completamente autologa, in cui i linfociti T geneticamente modificati provengono dal paziente con la leucemia. In pratica, prima si raccolgono i globuli bianchi dell’individuo e si selezionano i linfociti T; poi, grazie a un lentivirus simile al virus dell’HIV ma inattivato, quindi incapace di diffondersi, viene inserito un vettore virale con l’informazione per il CAR contro CD19. Dopo 10 giorni circa, i linfociti T così modificati vengono reinfusi nel paziente.

Il CD19 è espresso solo sulle cellule B leucemiche?
No, in realtà è espresso anche sulla superficie di un certo gruppo di linfociti B normali, ma non è grave, perché si può vivere anche in loro assenza. Come effetto collaterale si avrà l’aplasia delle cellule B, cioè la loro mancata maturazione, e, di conseguenza, una riduzione degli anticorpi e una maggiore suscettibilità alle infezioni. Ma è meglio avere questo che la leucemia.

Ci sono già studi clinici su questa terapia, in fase 1 e 2(*), e le percentuali di risposta sono molto alte, soprattutto per quanto riguarda i pazienti pediatrici affetti da leucemia linfoblastica acuta. Gli ultimi risultati presentati a dicembre nell’incontro annuale dell’American Society of Hematology dicono che il 94% dei pazienti con questa leucemia hanno raggiunto la remissione completa. Certamente alcuni di questi andranno incontro a recidiva, ma all’ultimo controllo una buona percentuale ha mantenuto la regressione completa.

È possibile utilizzare lo stesso approccio per leucemie che non esprimono CD19?
Il CD19 è un buon target e sta avendo molto successo per leucemie e linfomi di origine B-cellulare perché anche se nel corso del trattamento vengono distrutte cellule sane CD19 positive, si è visto che non è un grosso problema. Chiaramente il tutto diventa più difficile quando parliamo di leucemie o tumori che non hanno CD19 e espongono proteine simili a quelle dei tessuti sani. Per esempio, se una leucemia mieloide acuta esprimesse un antigene presente anche sulle cellule staminali del sangue, usando CART avremo una forte compromissione dell’emopoiesi. Il problema sta quindi nel caratterizzare delle molecole che permettano di distinguere il più selettivamente possibile il tumore dai tessuti sani. Uno dei miei progetti di ricerca consiste appunto nel trovare nuove proteine da usare come bersaglio per costruire CART specifici.

Per alcune leucemie mieloidi acute e il linfoma Hodgkin abbiamo individuato l’antigene CD123. Abbiamo poi visto che il CD123 è espresso anche da alcune leucemie B-cellulari già trattate con la terapia CART-19 ma che nel tempo hanno sviluppato un meccanismo di resistenza. Queste recidive compaiono in circa 20-30% dei pazienti e non esprimono più il CD19, a indicare che la malattia è mutata e ha usato come meccanismo di fuga proprio la scomparsa del CD19.

È possibile combinare la terapia CART con altri farmaci già in uso?
Ci sono forme di leucemie e linfomi, come il linfoma mantellare, in cui i CART-19 non funzionano bene e le remissioni complete sono del 25-50%. Ho valutato la combinazione di CART-19 con altre molecole, in particolare con un inibitore della tirosin-chinasi di Bruton, enzima cruciale per la crescita e la differenziazione dei linfociti B. La cosa interessante è che questo inibitore, chiamato ibrutinib, lavora in sinergia con CART, cioè agisce contro il tumore e contemporaneamente aumenta l’efficacia dei linfociti T. È come se 1+1 desse 3.

Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?
CART è un’arma molto potente nell’immunoterapia dei tumori. Dobbiamo solo imparare a usarla: per esempio campire come gestire la tossicità, ed evitare che i tumori diventino resistenti. Per esempio, potremmo combinare diverse immunoterapie per evitare che il tumore trovi meccanismi di fuga. Come terapia per ora è disponibile solo negli Stati Uniti, anche se ci sono diversi centri italiani che hanno mostrato interesse per portarla in Italia. Quello che può fare una cellula, il linfocita T, contro un tumore non è paragonabile a quello che può fare un chemioterapico: questa è una terapia viva, che può proliferare, andare a cercare il tumore nelle varie sedi del corpo e stabilire una memoria.

Per saperne di più guarda questo video.

Leggi anche: Due farmaci immunoterapici contro il melanoma

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.
Crediti immagine: Marco Ruella

(*) Il 12 gennaio 2016 è stato corretto l’articolo modificando da “fase 2 e 3” a “fase 1 e 2”

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Luisa Alessio
Biotecnologa di formazione, ho lasciato la ricerca quando mi sono innamorata della comunicazione e divulgazione scientifica. Ho un master in comunicazione della scienza e sono convinta che la conoscenza passi attraverso la sperimentazione in prima persona. Scrivo articoli, intervisto ricercatori, mi occupo della dissemination di progetti europei, metto a punto attività hands-on, faccio formazione nelle scuole. E adoro perdermi nei musei scientifici.