Le tecnologie della microelettronica
La tecnologia per produrre dispositivi elettronici sempre più piccoli mette alla prova le leggi fisiche e la conoscenza umana, ma permette di fabbricare oggetti veloci, leggeri, economici e con potenzialità enormi.
RICERCANDO ALL’ESTERO – “La ricerca nel campo dell’elettronica è talmente avanzata che mette alla prova i limiti della conoscenza umana e delle applicazioni tecnologiche. Creare MOSFET sempre più piccoli vuol dire avere sul mercato dispositivi elettronici sempre più avanzati, siano essi smartphone, computer o prototipi di automobili che si parcheggiano da sole. L’impatto dal punto di vista pratico ed economico è enorme”.
Nome: Alessio Spessot
Età: 36 anni
Nato a: San Vito al Tagliamento (PN)
Vivo a: Leuven (Belgio)
Dottorato in: Fisica dello stato solido (Modena)
Ricerca: Ottimizzazione di dispositivi elettronici ultrascalati.
Istituto: IMEC, Micron Technology
Interessi: giocare a basket, fare jogging, giocare con mio figlio.
Di Leuven mi piace: è una città molto internazionale.
Di Leuven non mi piace: la cucina non è molto varia.
Pensiero: Where performance is measured, performance improves. Where performance is measured and reported, the rate of improvement accelerates. (Thomas S. Monson)
Qual è la sfida di fare MOSFET molto piccoli?
Innanzitutto, per i non addetti ai lavori, spieghiamo cosa è un MOSFET. La sigla sta per metal-oxide-semiconductor field-effect transistor e indica un dispositivo elettronico in grado di modulare la corrente che passa in un circuito.
È formato da tre terminali, chiamati gate, drain e source: controllando la tensione applicata al gate è possibile regolare il flusso di corrente tra drain e source, un po’ come un grosso corso d’acqua il cui flusso è controllato da un rubinetto. Tra il drain e il source c’è un sottile strato di diossido di silicio, materiale isolante necessario per permettere il funzionamento del rubinetto senza perdite d’acqua. Il silicio si può drogare, cioè nel suo reticolo cristallino si possono aggiungere delle irregolarità che modificano le proprietà di conduzione e lo rendono un semiconduttore. Tutti i dielettrici, ovvero i materiali polarizzati da un campo elettrico, possiedono una certa costante k (o permittività elettrica) che descrive il loro comportamento.
Quindi il MOSFET è un dispositivo binario su cui si basa tutta l’elettronica e può essere acceso o spento come un interruttore.
Tra le sue principali caratteristiche c’è innanzitutto il fatto che deve essere ben acceso, cioè deve avere delle buone performance in stato di ON, in modo che, per esempio, quando gioco sullo smartphone o quando uso la connessione internet su un laptop, il tutto sia molto veloce. Poi deve essere ben spento, cioè avere una bassa perdita di corrente in stato di OFF, così la batteria del cellulare dura più a lungo e non si scarica quando lo schermo è in standby. Infine deve costare poco, perché se anche creiamo il MOSFET più performante del momento, con il miglior ON e il miglior OFF, ma al costo di 1 milione di dollari, come verosimilmente era all’inizio, sarà difficile che poi una ditta lo inserisca in un cellulare che vuole vendere a poche centinaia di euro.
Ritorniamo alle dimensioni di questi dispositivi.
Fino a oggi, l’elettronica è scalata secondo la legge di Moore, per cui più piccolo vuol dire più bello, dal punto di vista economico e produttivo. Fino a qualche anno fa, fare MOSFET sempre più piccoli era una semplice questione di leggi fisiche e il solo fatto di riuscire a produrli garantiva che fossero migliori e più convenienti.
Negli ultimi 5 anni si è visto che è talmente complicato ridurre ancora le dimensioni di questi oggetti che non è poi così vero che più piccolo uguale più economico. Anzi, probabilmente abbiamo toccato il fondo della legge di Moore e se facessimo MOSFET più piccoli verosimilmente sarebbero tutti più costosi dei precedenti.
I primi computer della Intel, la più grande importante azienda produttrice di dispositivi a semiconduttore, erano fatti con MOSFET lunghi 10 µm, dimensioni gigantesche per l’elettronica moderna nonostante corrispondano a una frazione di un capello. I dispositivi attualmente in commercio hanno dei MOSFET di circa 22 nm, quindi molto più piccoli. Da gennaio, ho iniziato a lavorare su tecnologie che devono scendere addirittura fino a 3 nm, il minimo teorico che oggi crediamo possibile.
Con dimensioni nell’ordine dei nanometri, però, non si è più potuto usare l’ossido di silicio perché è un materiale che non riesce a reggere il fortissimo campo elettrico applicato, senza diventare troppo permeabile alla corrente. Perciò si è dovuti passare a materiali con costanti di accoppiamento più alte, chiamate high-k.
Il più importante risultato della mia ricerca è stato aver sviluppato una metodologia per creare un high-k metal gate compatibile con tutti i requisiti di una DRAM, memoria dinamica indispensabile per il funzionamento di qualunque microprocessore. In tal modo sarà possibile velocizzare ulteriormente questo particolare tipo di memoria e avere in futuro dispositivi mobili, come smartphone, veloci, leggeri, economici e con ottime prestazioni. Il futuro di cui stiamo parlando è di 3-5 anni, quindi immediato: in elettronica, lavorare sull’high-k metal gate significa fare ricerca davvero avanzata.
Come sei riuscito a migliorare la performance senza aumentare i costi?
Si può agire cambiando architettura, tipo di materiali o il modo di processarli. Il mio gruppo e io abbiamo messo a punto dei protocolli per infiltrare altri materiali all’interno silicio: quello che si ottiene è un archetipo di microchip che, una volta uscito dalla linea pilota di ingegnerizzazione, viene testato su scala molto maggiore. Alla fine, se tutto va bene, il prototipo viene implementato per essere immesso sul mercato.
Tutto il processo comprende una combinazione di passaggi così complicata da richiedere precisioni di controllo molto alte e, di conseguenza, una produzione automatizzata. I macchinari che si utilizzano sono tra i più complicati che l’umanità abbia mai creato, hanno costi molto alti (anche più di 200 milioni di euro l’uno) e sono grandi come una stanza. Sono contenuti in un’atmosfera controllata e vengono comandati da un’interfaccia remota per evitare quanto più possibile contaminazioni e vibrazioni.
Dal punto di vista pratico, per produrre un prototipo di MOSFET come quelli di oggi si parte da un pezzo di silicio, chiamato comunemente wafer, spesso 700 µm e con 300 mm di diametro, che ricorda un po’ una pizza. Questo blocco monocristallino viene poi sottoposto a tutta una serie di processi chimici e fisici di pulizia, deposizione di sottili strati di materiali, rimozioni selettive, creazione di contatti e di impressione litografica. A questo proposito, le lunghezze d’onda usate nei passi di litografia sono estremamente piccole e hanno complessità fisiche importanti: per produrle sono necessari particolari accorgimenti tecnologici, come far passare la luce attraverso dei liquidi in modo che, sfruttando il differente indice di rifrazione dei materiali, si riescano ad accorciare le lunghezze d’onda e a stampare oggetti più piccoli.
Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?
Fino a dicembre i MOSFET di cui mi sono occupato servivano alla Micron, che è la terza società mondiale che produce memorie. Da gennaio, la mia ricerca è centrata sulla logica per microelettronica e ha lo scopo di riuscire a raggiungere, per i MOSFET, il nodo tecnologico dei 3 nm.
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Crediti immagine: Alessio Spessot