Piccoli equivoci tra noi animali
È facile cadere nel tranello dell'umanizzazione e attribuire agli animali emozioni e comportamenti tipicamente umani. Un libro ci aiuta a chiarire questi malintesi
LIBRI- Certamente vi sarà capitato di pensare che l’espressione di un delfino ricorda un sorriso, o che quei koala pigramente abbracciati agli alberi paiono umani, nel loro rilassarsi. In realtà l’uno non ha muscoli facciali, perciò la sua espressione è immutabile. L’altro appoggiato sui tronchi trova refrigerio, e riesce ad abbassare la sua temperatura corporea nelle roventi estati australiane da 40°C all’ombra.
È facile cadere nella “trappola” dell’umanizzazione e cercare negli animali i segni di comportamenti, espressioni e reazioni tipicamente umane, anche quando non ci sono (vedi il recente aneddoto del canguro in lutto). Ma siamo sicuri di capirci con le altre specie? È la domanda alla quale vuole rispondere “Piccoli equivoci tra noi animali”, il nuovo libro della biologa Lisa Vozza e del neuroetologo Giorgio Vallortigara, della collana Chiavi di Lettura Zanichelli.
Gli interrogativi che trovano una risposta, procedendo con la lettura, sono in realtà moltissimi. Ad esempio, ha senso dire che un organismo più complesso è anche più evoluto? La straordinaria memoria spaziale di alcune specie animali può essere paragonata all’autismo o alla sindrome del savant? Gli orsi sono davvero solitari come dicono? Un gamberone può avere l’ansia?
Ma torniamo da quel delfino (non) sorridente. Mentre qui la questione è ancora intricata, nei parchi acquatici dell’India è illegale ospitare i delfini, considerati “persone non umane” da un documento governativo. Questa tutela tanto scrupolosa si basa sull’idea che i delfini siano dotati di un’intelligenza eccezionale, quando in realtà sono sì intelligenti ma in modo specifico. Sono dotati cioè delle capacità cognitive che servono a loro nella vita di tutti i giorni. Ma non per questo sono “più intelligenti” di altre specie (mammiferi e non).
Gli equivoci sono all’ordine del giorno, anche perché la nostra distinzione tra animale più o meno intelligente, più o meno “domestico”, più o meno selvatico ci porta a incasellare la stessa specie in contesti diversi. Stabilendo che alcuni sono legittimi, altri no, perché magari suscitano tristezza o indignazione. Gli autori portano l’esempio del furetto: c’è chi lo tiene in casa come animale da compagnia ed è felice che un veterinario lo abbia già privato delle sue ghiandole, così non ci saranno odoracci in casa. Ma un furetto simile, senza nome, si trova in un laboratorio dove gli scienziati lo usano come animale modello per prevenire una pandemia umana: potrebbe aiutare a salvare moltissime vite. E ancora, in un altro laboratorio un furetto simile viene studiato per capire come riconosce i propri simili tramite segnali odorosi. In questo caso è lecito privarlo delle ghiandole? Meno, penseranno molti.
Nel libro ci sono altri due possibili scenari per questo furetto (neanche tanto) immaginario, che passa da graziosa creaturina che gira per casa a specie invasiva. È normale e più che legittimo che contesti tanto diversi suscitino in noi dei pensieri contraddittori. Ma l’esempio ci aiuta a ragionare su come alcuni fattori influenzino la nostra percezione degli animali.
Spesso siamo troppo frettolosi, scrivono gli autori, nello stabilire principi morali e di diritto in base al presunto grado d’intelligenza di una specie. Presunto anche di fronte a studi scientifici che dicono diversamente: perché non far entrare in questo nostro “cerchio morale” anche altri animali che si sono dimostrati molto intelligenti e capaci di svolgere compiti complessi? Corvi, ghiandaie, pesci arciere… Paradossalmente, aggiungono Vozza e Vallortigara, tutte le norme che nascono per salvaguardare gli animali intelligenti fanno anche sé che non ci sia più modo per i ricercatori di provare (stavolta con basi scientifiche) le loro reali capacità cognitive. L’idea che l’intelligenza sia “una sostanza unica e misteriosa, posseduta in quantità diverse e in scala dalle diverse specie, è da abbandonare”.
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