Resistenza Killer
I parassiti che possiedono una mutazione utile a contrastare il principio attivo di un farmaco tendono a sopravvivere al trattamento e si diffondono. Ma può succedere anche il contrario.
RICERCA – La resistenza ai farmaci si ritorce contro il patogeno responsabile della malaria, uccidendolo: si tratta di una mutazione suicida ed è ciò che hanno visto i ricercatori seguendo il Plasmodium berghei nei topi e poi nella zanzara. Lo stesso meccanismo dovrebbe essere presente anche nel Plasmodium falciparum umano.
La resistenza ai farmaci è lo spauracchio di tutti coloro che si occupano di terapie: i parassiti (ma vale anche per batteri e virus), che possiedono una mutazione utile per contrastare il meccanismo d’azione del principio attivo, sopravvivono al trattamento con il farmaco e si diffondono. In questo modo, ci spiega Geoff McFadden, coautore di uno studio insieme a Dean Goodman, dal 1950 a oggi sono stati tre i farmaci persi per la cura della malaria, e sta iniziando a emergere e a diffondersi anche la resistenza ai derivati dell’artemisinina, il prodotto di punta.
I ricercatori dell’Università di Melbourne hanno analizzato ciò che succede con la somministrazione di atovaquone, farmaco spesso utilizzato in combinazione con il proguanil con il nome di Malarone© specie nella profilassi malarica, e hanno scoperto che la resistenza non solo non si diffonde ad altri parassiti malarici, ma si trasforma nel punto debole per il parassita. Com’è possibile? L’atovaquone agisce legandosi e bloccando il citocromo B, proteina che permette l’uso di ossigeno a livello cellulare con il fine di produrre energia necessaria alla cellula. Quando il parassita malarico si replica nell’organismo dell’ospite (nel caso dell’esperimento in questione il topo, ma potrebbe valere anche per i grandi mammiferi come l’uomo) la produzione di energia attraverso il citocromo b avviene più lentamente, ma questa attività è sufficiente affinché il farmaco possa agire.
I ceppi resistenti all’atovaquone hanno una mutazione nel gene che codifica il citocromo B: il farmaco non vi si lega e la blanda attività della proteina garantisce comunque la sopravvivenza del parassita. «Quando il parassita mutato dal topo passa alla zanzara Anofele, ecco che sopraggiungono i problemi – spiega McFadden –. Il citocromo B non funziona abbastanza per quel tipo di vettore e il parassita non riuscendo a produrre energia a sufficienza per il proprio ciclo vitale muore». Di fatto la mutazione non può diffondersi. «Nei casi più comuni avviene il contrario cioè la mutazione selezionata dall’uso dei farmaci antimalarici limita l’efficacia dei farmaci stessi, permettendo la trasmissione di parassiti resistenti al farmaco antimalarico da una persona all’altra, e favorendone la diffusione», aggiunge Emanuele Nicastri, infettivologo dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Spallanzani.
I motivi per cui i parassiti sopravvivono nel piccolo roditore e non nella zanzara vanno cercati nel tipo di mutazioni del citocromo B associate all’atovaquone e nelle diverse relazioni tra ospite e parassita. Nel mammifero la pressione selettiva esercitata dal farmaco è tale che comunque il parassita malarico trova modalità alternative di produzione di energia. «Nella zanzara, invece – spiega Nicastri – il citocromo b è necessario alla produzione di energia cellulare: non vi sono modi alternativi per produrre energia». Pertanto il parassita malarico portatore di mutazione indotta dall’atovaquone non può sopravvivere nella zanzara
«Il nostro obiettivo futuro – spiega McFadden – sarà quello di valutare sul campo e in particolare sull’uomo, la diffusione di questa mutazione suicida indotta dal farmaco atovaquone». Conclude Nicastri: «La disponibilità del farmaco atovaquone come farmaco generico a un prezzo accessibile anche per popolazioni e paesi poveri potrebbe dare nuove speranze per il trattamento della malaria. Inoltre altri farmaci antimalarici con evidenza di resistenza a livello del citocromo B potrebbero condividere lo stesso meccanismo di mutazione suicida studiato con l’atovaquone, e pertanto aprire altri scenari di ricerca futura».
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