Comfort food per ridurre lo stress
Una zuppa calda, una bistecca o una tavoletta di cioccolato. Ognuno di noi trova conforto in particolari pietanze o snack, ma le basi di questo comportamento vanno ben oltre i gusti del singolo
SCOPERTE – Qual è la prima cosa che vi viene in mente di fronte al concetto di comfort food? Un piatto di pasta forse, una zuppa calda, o una tavoletta di cioccolata? L’idea alla base del cibo di conforto è che si tratti di pietanze con un valore sentimentale, forse nostalgico, spesso ad alto contenuto calorico e di carboidrati ma semplici da preparare. Il termine è ampiamente utilizzato e sembra che la sua origine vada indietro addirittura agli anni Sessanta del secolo scorso, quando un articolo sulla rivista Palm Beach Post lo menzionò come quel cibo in cui si rifugiano gli adulti quando stanno soffrendo un forte stress emotivo. Un cibo “associato alla sicurezza dell’infanzia”.
Ognuno di noi ha dei comfort food prediletti (secondo Wikipedia inglese quelli tipici in Italia sarebbero la Nutella, le lasagne e gli gnocchi) ma vari studi, nel corso degli anni, hanno chiarito che l’idea di cibo “emozionale” va ben oltre i gusti del singolo. Quando siamo giovani, per esempio, tendiamo a preferire gli snack alle pietanze più complicate, mentre invecchiando ci rifugiamo in piatti elaborati.
Le differenze sono palesi, secondo gli studi, anche per genere. La maggior parte degli uomini associa il comfort food ai sentimenti positivi e lo identifica in piatti caldi e sostanziosi, come zuppe o bistecche, mentre per le donne la scelta tende a ricadere su spuntini semplici – che richiedono poca o nessuna preparazione – durante stati d’animo negativi. Durante gli anni dell’università, questa scelta di alimenti poco salutari (snack salati o dolci, merendine) tende a inasprirsi: poco più di una studentessa su tre mantiene una dieta salutare nei periodi di forte stress.
Ma dove affondano le radici di questa differenza? Nell’organo più affascinante e complesso del corpo umano, il cervello. All’Università di Cincinnati, infatti, un gruppo di ricercatori guidato da Yvonne Ulrich-Lai ha deciso di cercare i meccanismi neurali e gli effetti del comfort food: la loro scoperta è che le connessioni responsabili di ridurre lo stress (dopo aver mangiato alimenti gustosi e confortanti) potrebbero essere diverse tra uomini e donne, e in queste ultime cambiare ulteriormente in base al periodo del ciclo mestruale. Per confermare quest’ultima ipotesi Ann Egan, la prima autrice, ha studiato i circuiti coinvolti sui ratti femmina. I suoi risultati sono appena stati presentati all’Annual Meeting of the Society for the Study of Ingestive Behavior.
Il modello murino è stato basato proprio sui comportamenti umani di snacking, cioè piluccare cibo per piccoli spuntini frequenti. Ogni giorno per due settimane un gruppo di ratti femmina aveva accesso per due volte a una piccola quantità di bevanda zuccherina, mentre un altro gruppo, il controllo, poteva bere dell’acqua. A quel punto tutti i roditori sono stati sottoposti a uno stress test e alla misurazione della risposta ormonale allo stress. A conferma di altre indagini precedenti, i ratti che avevano assunto zuccheri avevano risposte ormonali di stress più lievi, ma solo in un periodo preciso del loro ciclo estrale: durante il pre-estro e l’estro, quando i livelli di estrogeni, gli ormoni sessuali femminili, sono più elevati.
“Sappiamo che uomini e donne mangiano cibi saporiti come strategia per ridurre lo stress, ed esistono alcune evidenze secondo le quali le donne sarebbero più soggette a questo stile alimentare del ‘comfort food’”, spiega Egan in un comunicato. Si tratta di una prova in più a sostegno dell’idea che uomini e donne usino regioni del cervello leggermente diverse, e che i comportamenti alimentari li influenzino in modo differente. A dettare legge nelle donne, per di più, ci sarebbero i livelli degli ormoni che variano in base al periodo del ciclo.
Tutte queste scoperte possono tornare utili per aiutare le persone a gestire meglio i periodi di stress dal punto di vista alimentare, ma anche diventare una chiave importante per trattare i pazienti (specialmente quelli geriatrici) che mangiano troppo poco per mancanza di appetito, finendo per aggravare la loro condizione di salute.
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