Chi è Homo sapiens?
Nel libro "Homo sapiens: una biografia non autorizzata" il fisico Claudio Tuniz e l'economista Patrizia Tiberi Vipraio ripercorrono le tappe cruciali dell'evoluzione umana. Abbiamo intervistato Tuniz nel corso di Trieste Next
APPROFONDIMENTO – Delle molte specie umane che si sono susseguite e hanno anche convissuto nel passato, alla fine è rimasta solo la nostra. Eppure fino a 80 000 anni fa coesistevano almeno quattro specie umane differenti – Homo sapiens in Africa, il Neandertal tra Europa e Asia, il misterioso Uomo di Denisova in Asia e il piccolo Homo floresiensis in Indonesia – e tra queste erano proprio i nostri antenati a essere vicini all’estinzione. Le ricerche genetiche hanno infatti mostrato che la nostra specie ha attraversato una fase a “collo di bottiglia”, nella quale la popolazione si era ridotta a poche migliaia di individui. Eppure, subito dopo essere stato a un passo dalla fine, H. sapiens ha iniziato la colonizzazione dell’intero mondo che l’ha portato a soppiantare progressivamente le altre specie umane.
Delle caratteristiche che contraddistinguono la nostra specie e che le hanno permesso di avere successo hanno dialogato lo scienziato Claudio Tuniz e il giornalista Federico Taddia, al museo Revoltella, nell’ultimo dei tre giorni di Trieste Next. Claudio Tuniz, fisico dell’ICTP (Centro internazionale di fisica teorica di Trieste), si occupa da molti anni di studi di paleoantropologia. Sollecitato dalle domande di Taddia, Tuniz ha proposto numerosi spunti di riflessione ripercorrendo le tappe cruciali che hanno segnato l’evoluzione umana, anche attraverso il suo libro Homo sapiens: una biografia non autorizzata (Carocci, 2015), scritto a quattro mani con l’economista Patrizia Tiberi Vipraio. Lo abbiamo intervistato.
Da fisico come le è nata la passione per la paleoantropologia?
Dopo aver fatto per 10 anni ricerca di base in fisica nucleare sperimentale, ho cominciato a usare i metodi basati sulla radioattività e i fasci di particelle per studiare il nostro passato. Per una ventina d’anni mi sono occupato di questo tipo di ricerche nell’archeologia in generale. Poi, negli ultimi 10-15 anni, mi sono concentrato sull’uso di tecniche per gli studi paleoantropologici.
Ma che ruolo hanno la fisica e l’ICTP nello studio della paleoantropologia?
La fisica è capace di mettere al servizio delle ricerche di questo tipo metodi che hanno dell’incredibile. I risultati si sono manifestati in una rivoluzione delle conoscenze sul nostro passato. I metodi di datazione, per esempio, si sono rivelati preziosi per definire una cronologia di quanto successo nel passato profondo, in particolare nei 6 milioni di anni che hanno caratterizzato l’evoluzione umana. Si possono poi usare particelle o raggi X per analizzare reperti molto preziosi in maniera non invasiva. Negli ultimi tempi si stanno svolgendo analisi di questo tipo sugli antichi fossili umani custoditi nei musei di storia naturale.
Infine c’è la scienza delle reti e quella dei sistemi complessi. Entrambe sono molto utili per capire come funziona una società formata da tanti Homo sapiens. In queste reti ogni individuo inserisce le sue capacità cognitive, che emergono dalla continua interazione fra le sue reti di neuroni, la cultura e l’ambiente e nella società moderna, queste interazioni sono collegate anche attraverso internet. Volendo andare nello specifico, all’ICTP abbiamo analizzato l’Uomo di Visogliano, un H. heidelbergensis vissuto circa 350 000 anni fa. Stiamo studiando, cioè, l’antenato comune che abbiamo con i Neanderthal. Inoltre abbiamo studiato anche i reperti di alcuni bambini Neanderthal e un H. sapiens dell’era glaciale.
E come è nato questo libro sulla nostra specie, scritto da un fisico e un’economista?
Da anni bombardavo Patrizia Tiberi Vipraio con l’idea di scrivere qualcosa insieme. Finché non l’ho convinta a intraprendere questo studio per capire chi siamo, per sondare la nostra natura profonda, che è un misto di evoluzione anatomica, cognitiva e sociale. Questa è una cosa che possiamo fare – insieme – solo se riusciamo a identificare le nostre origini e a capire come siamo arrivati a questo punto. A questo scopo la fisica, e le discipline scientifiche in generale, ci permettono di studiare l’evoluzione umana e di capire come è cambiato il cervello, il corpo e quando questi cambiamenti sono avvenuti. Da quando però H. sapiens comincia a formare società abbastanza organizzate – circa 100 000 anni fa – si deve ricorrere alla sociologia, all’economia e anche all’ecologia per capire come questo nuovo organismo si adatta a livello planetario.
A questo punto le chiedo: chi siamo come specie?
Siamo una specie invasiva. È una definizione che ci descrive molto bene: ci adattiamo a tutti gli ambienti causando una riduzione della biodiversità. Basta pensare che circa 80 000 anni fa eravamo sull’orlo dell’estinzione. Ci eravamo ridotti e 2000-3000 individui, e vivevamo ancora in Africa. Ora siamo oltre 7 miliardi e abbiamo invaso tutto il mondo provocando direttamente e indirettamente l’estinzione di molti grandi animali, e anche di altre specie umane come i Neandertal e l’Uomo di Denisova. Durante l’evoluzione umana sono coesistite molte specie di ominidi, ma solo la nostra è sopravvissuta.
Ma come è nata la nostra specie e cosa l’ha resa diversa dalle altre?
L’umano moderno nasce quando Homo sapiens sviluppa il pensiero simbolico, circa 100 000 anni fa, acquisendo la possibilità di aggregare un gran numero di individui attraverso la cultura. Il numero massimo di individui che si possono aggregare, fra i primati, dipende infatti dalla grandezza della corteccia cerebrale. Gli scimpanzé, per esempio, possono formare al massimo società composta da una cinquantina di individui. In base a questo parametro noi possiamo arrivare a 150. Da questo punto di vista fra 200 000 e 100 000 anni fa la nostra specie era ancora abbastanza simile a tutte le altre specie umane.
Poi dal nostro cervello è emersa la capacità di immaginare altri mondi, tutti inventati da noi. Questo ci ha permesso di diventare un organismo sociale e di creare reti culturali. Il pensiero simbolico permette per esempio a un miliardo e mezzo di persone di immaginare di essere cinesi, o a 400 milioni di essere statunitensi. A nessun’altra specie verrebbe in mente una cosa del genere. Scherzi a parte, si deve tenere conto che quando si dice che gli esseri umani sono andati sulla Luna in realtà è stato l’organismo sociale Homo sapiens a compiere l’impresa, non i singoli individui che ci sono andati di persona.
Noi non riusciamo ad avere percezione di eventuali modifiche della nostra specie, ma la scienza cosa dice? Continuiamo a evolverci?
Sicuramente sì. Esistono adattamenti del nostro corpo prodotti dall’evoluzione culturale. Il fatto che abbiamo cominciato ad allevare animali, per esempio, ci ha fatto sviluppare gli enzimi per digerire il latte, che prima non avevamo. Soprattutto però continua a evolvere il nostro cervello. Si tratta di un organo estremamente plastico. Cambiando l’interazione con l’ambiente, con l’uso di diversi strumenti, cambia anche l’uso delle mani, cambia il corpo, cambia il nostro cervello, e con lui il funzionamento delle nostre reti neuronali.
Oggi l’umanità è adatta al mondo che ha creato? Un tempo l’innalzamento del livello del mare non avrebbe causato grossi problemi. Oggi invece la nostra specie sarebbe messa a dura prova. Si direbbe quasi che l’aumento di popolazione e lo sviluppo della tecnologia abbiano minato la nostra adattabilità.
Io penso che abbiamo gli strumenti per sopravvivere, come specie, a eventi di questo tipo. L’unica cosa che mi preoccupa è un conflitto generalizzato tra le diverse reti culturali umane, attualmente ancora in mano agli Stati, evento che ci potrebbe portare vicino all’estinzione. In effetti Jared Diamond sostiene che nel 2050 potremmo estinguerci.
Esiste anche l’ipotesi che, non essendoci più pressione evolutiva verso lo sviluppo dell’intelligenza, nel futuro si possa avere una regressione delle capacità del cervello umano. Quanto è realistica?
Secondo qualcuno è molto realistica. L’effetto negativo potrebbe derivare soprattutto dall’uso di internet. Questo da una parte è uno strumento dalle potenzialità incredibili, per tenersi collegati e sviluppare scienza e sapere; ma dall’altra alcuni effetti di retroazione sul cervello potrebbero indebolire certe nostre capacità cognitive. Per dirlo in parole povere, potremmo diventare molto bravi a vivere nel mondo virtuale, ma perdere le nostre capacità di vivere bene nel mondo fisico. Nel mondo virtuale si può creare un proprio avatar e pretendere di essere diversi da ciò che si è veramente e questo può creare problemi nel mondo fisico.
Altri pericoli derivano dal delegare molte attività alle macchine, come quella di memorizzare informazioni. Oggi sempre più stiamo delegando ai computer la strutturazione dell’enorme mole di dati a disposizione. Questo però ci fa perdere il controllo dei dati che rimangono nelle mani delle grandi compagnie come Google o Facebook. Nell’evoluzione digitale, allegoricamente parlando, si può avere un processo inverso rispetto a quello che ha caratterizzato l’evoluzione umana. I nostri antenati sono passati dall’essere spazzini della savana a cacciatori-raccoglitori, e infine ad agricoltori e allevatori. Con i big data presenti su internet, si potrebbe immaginare un percorso inverso. Potremmo passare da coltivatori e allevatori di conoscenza – quali siamo ora – a cacciatori di dati generati e selezionati per noi dalle macchine, per arrivare a una posizione di spazzini della rete: creature che si accontentano di condividere con gli amici gli ultimi brandelli di informazioni (irrilevanti) che i grandi predatori di conoscenze avranno la bontà di lasciarci in pasto.
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