Trovata radiazione X ad alte energie: un nuovo mistero nello spazio?
Da dove proviene l’emissione diffusa di raggi X che si osserva nello spazio? Due sono le sorgenti possibili individuate dagli astronomi: o il vento solare, o una ipotetica bolla di gas molto caldo in cui sarebbe immerso il sistema solare.
RICERCA – La questione era aperta da più di 20 anni, ma grazie al razzo sonda DXL si è potuto finalmente sciogliere il problema. L’analisi dei dati ricavati dalla sonda, pubblicata sulla rivista Astrophysical Journal, ha mostrato che la radiazione X diffusa è prodotta da entrambe le fonti e che perciò la bolla di gas caldo, la cui presenza era stata teorizzata molti anni fa, effettivamente esiste. Di fronte a un interrogativo sciolto se ne è però aperto un altro. È stata rintracciata anche una misteriosa radiazione X ad alte energie, che non si sa ricondurre a nessuna fonte nota. Da dove arriva?
Da quando si è cominciato a osservare lo spazio in altre lunghezze d’onda oltre le luce visibile, si è scoperto che esistono molte varietà di sorgenti che emettono radiazioni di tutti i tipi, dalle meno energetiche onde radio ai più energetici raggi gamma. Alcune di queste radiazioni sembrano permeare lo spazio senza provenire da particolari direzioni. Si tratta in questo caso di radiazioni emesse dalle cosiddette sorgenti diffuse, cioè sorgenti che non sono collocate in un punto specifico dell’universo, ma che sembrano coprire più o meno uniformemente lo spazio attorno a noi. La più famosa di queste radiazioni è sicuramente la radiazione cosmica di fondo che è stata emessa dal gas primordiale che riempiva l’universo 380.000 anni dopo il Big Bang. Esistono però anche altri tipi di radiazioni diffuse nelle varie lunghezze d’onda, tra queste anche una emissione diffusa di raggi X la cui fonte fino ad oggi non era stata chiarita.
I raggi X non riescono a penetrare nell’atmosfera e perciò, fino a quando non si è riusciti a mandare sonde nello spazio, era stato impossibile osservare il cielo in questa banda elettromagnetica. Quando nel 1962 fu scoperta la prima sorgente di raggi X nello spazio -a opera del fisico italiano Riccardo Giacconi, scoperta per la quale vinse il premio Nobel nel 2002- per gli astronomi comunque fu una sorpresa. Si sapeva dagli anni 40 che la corona solare emette raggi X, ma era un fenomeno troppo debole sulla scala delle normali distanze astronomiche per poter pensare di osservarlo anche in altre stelle.
D’altro canto i raggi X sono una radiazione estremamente energetica, che potrebbe essere prodotta solo da eventi in cui sono gioco energie enormi e temperature dell’ordine di milioni di gradi. Osservare una sorgente X nello spazio attorno alla Terra avrebbe implicato o che fosse molto vicina, come il caso della corona solare, o richiesto energie allora difficilmente concepibili rispetto alla conoscenza che si aveva dei fenomeni astrofisici. Col progredire delle conoscenze divenne chiaro, però, che lo spazio è molto più turbolento di quanto possa apparire in una notte stellata e che le energie richieste per produrre forti emissione di raggi X sono comuni in molti fenomeni.
Oggi si sa, per esempio, che quella prima sorgente scoperta da Giacconi chiamata Scorpius X-1 altro non è che una stella di neutroni su cui sta cadendo una grande quantità di massa proveniente dalla stella compagna con cui forma un sistema binario. Oltre a questo si sono scoperte numerose altre fonti di raggi X come i buchi neri, il gas caldo prodotto dalle supernovae o gli enormi aloni di gas alla temperatura di milioni di gradi presenti negli ammassi di galassie. Tuttavia riuscire a osservare questo tipo di fenomeni è estremamente complesso, in primo luogo perché bisogna operare obbligatoriamente nello spazio visto che i raggi X non giungono a terra.
La seconda difficoltà viene dal fatto che nell’astronomia, a differenza che nelle altre lunghezze d’onda, durante le osservazioni si osservano solo pochi fotoni X alla volta e numeri così esigui rendono l’analisi dei dati incerta e soggetta a errori. Un altro grande problema viene poi da come raccogliere la radiazione X. A differenza delle altre lunghezze d’onda, che vengono facilmente riflesse dalle superfici permettendo di essere raccolte, convogliate e infine misurate (è il principio di funzionamento dei normali telescopi), i raggi X tendono ad attraversare le superfici tanto che neanche quelle costituite usando i metalli più densi, come l’oro, riescono a rifletterli facilmente. Per questo motivo la costruzione dei telescopi X è una vera sfida ingegneristica.
Da quando si è cominciato a osservare il cielo in banda X, oltre alla presenza di sorgenti localizzate, è emerso anche il segnale prodotto da un’emissione X diffusa che sembra permeare tutto lo spazio. La prima teoria sulla sua origine fu che si potesse trattare di una sorta di rumore di fondo prodotto da sorgenti X molto lontane. Una radiazione del genere però sarebbe stata assorbita dal gas freddo presente nella nostra Galassia e perciò questa teoria fu scartata presto. La presenza del gas galattico imponeva che una tale radiazione dovesse provenire dalle relative vicinanze del sistema solare, non da fonti lontane. Gli scienziati a questo punto ipotizzarono l’esistenza nella zona attorno al sistema solare di una enorme bolla di gas caldo ionizzato (in cui gli elettroni, a causa delle alte energie, sono staccati dagli atomi) che avrebbe potuto produrre questa radiazione X diffusa. La bolla fu chiamata Local Hot Bubble.
Questa teoria fu messa in discussione quando alla fine degli anni ’90 fu scoperto il fenomeno dello scambio di carica da vento solare, anch’esso in grado di generare l’emissione X osservata. Questo processo avviene quando il vento solare composto da ioni (atomi che avendo perso uno o più elettroni si sono caricati positivamente) interagisce con atomi neutri. In questo processo gli elettroni -che hanno carica negativa- degli atomi neutri possono essere strappati via dagli ioni molto energetici del vento solare. Quando gli elettroni si trasferiscono allo ione si ritrovano però in uno stato eccitato e nel meccanismo di rilassamento si liberano dell’energia in eccesso emettendo raggi X.
Questo tipo di radiazione è dello stesso tipo di quella emessa dalla Hot Local Bubble, perciò negli scienziati sorse il dubbio se effettivamente fosse necessario ricorrere a quest’ultima. Per capirlo bisognava verificare se il vento solare da solo bastasse a giustificare l’intera radiazione X osservata. In caso negativo, la parte mancante sarebbe dovuta provenire giocoforza dalla Hot Local Bubble. La raccolta del segnale prodotto da una radiazione X diffusa propone però un altro tipo di sfide rispetto allo studio di sorgenti localizzate, in particolare il problema di raccogliere abbastanza fotoni evitando la contaminazione da altre fonti. Fino ad oggi solo sul satellite ROSAT, lanciato nel 1990, era stato montato uno strumento adatto allo scopo, mentre i progetti successivi si erano concentrati maggiormente nello studio di sorgenti localizzate. I dati forniti dalla missione purtroppo non consentivano di giungere a risultati conclusivi, ma se la bolla calda fosse esistita avrebbe potuto fornirci molte informazioni sulle caratteristiche e sul passato della nostra zona di galassia.
Si è dovuto attendere però fino al 2012 col lancio di DXL, un razzo sonda progettato dalla NASA, per raccogliere nuovi dati che potessero essere decisivi. DXL era stato pensato proprio per chiarire i dubbi sull’emissione X diffusa (l’acronimo infatti sta per Diffuse X-ray emission from the Local galaxy, emissione X diffusa dalla zona locale della Galassia). Il razzo sonda è una dei modi più semplici ed economici per osservare il cielo perché non prevede la messa in orbita di un satellite ma semplicemente una sonda montata su un razzo che effettui un veloce sorvolo nello spazio prima di rientrare a terra. DXL quindi ha volato solo una quindicina di minuti al di fuori dell’atmosfera, ma tanto è bastato per raccogliere i dati che servivano. La scelta del razzo sonda è stata fatta perché molto più semplice e meno costosa del mettere in orbita un telescopio, e perché per gli astronomi era sufficiente un’osservazione veloce e mirata. A differenza di ROSAT, DXL è stato lanciato nel momento in cui la Terra stava attraversando il cono di focalizzazione dell’elio. Questa è una zona creata dal movimento del sistema solare nella Galassia, che porta l’elio neutro del gas intergalattico a formare una specie di coda a densità più alta dietro il Sole. In questa zona la maggior presenza di gas neutro provoca una maggiore emissione X, per scambio di carica da vento solare, e ciò ha permesso di incrementare notevolmente la raccolta del segnale prodotto da questo fenomeno
I dati hanno mostrato inequivocabilmente che solo una parte della radiazione X osservata può essere prodotta dal vento solare. “Abbiamo mostrato che il contributo proveniente dallo scambio di carica del vento solare è circa il 40% se avviene nel piano galattico (la zona della galassia dove la densità di elio neutro è maggiore), e anche meno altrove” ha spiegato l’astrofisico della University of Miami Massimiliano Galeazzi, uno degli autori dello studio. “Il resto della radiazione X deve venire perciò dalla Local Hot Bubble, provando così che esiste”. L’origine di questa bolla sarebbe da ricercare in esplosioni di supernova avvenute ben prima che i nostri più lontani antenati muovessero i primi passi. “Pensiamo che circa 10 milioni di anni fa una supernova esplose e ionizzò il gas della Local Hot Bubble” ha continuato Galeazzi. “Una supernova in realtà non sarebbe stata sufficiente a creare una tale cavità e a raggiungere simili temperature, quindi è probabile che nel tempo si siano succedute due o tre di queste esplosioni, ognuna nella cavità creata dall’esplosione precedente”. Il nostro sistema solare starebbe perciò attraversando una delle cavità a bassissima densità e ad altissima temperatura nel gas neutro e freddo della galassia che si formano quando avvengono ripetute esplosioni stellari in una stessa zona.
Se sull’origine di una parte dell’emissione X diffusa si è fatta finalmente chiarezza, su un’altra invece si è aperto un mistero ancora più grande. DXL infatti ha misurato dei raggi X ad alta energia che non possono essere prodotti né dal vento solare né dalla Local Hot Bubble. “Ad alte energie queste sorgenti contribuiscono per meno di una quarto all’emissione X” ha spiegato Youaraj Uprety, astrofisico della University of Miami e leader del gruppo che ha svolto la ricerca “quindi c’è una sorgente di raggi X sconosciuta in questo range di energie”. Infatti “la temperatura della Local Hot Bubble non è abbastanza alta per produrre questa emissione. Questo ci lascia con questione aperta su quale sia la sorgente di questi raggi X”.
L’esistenza di questa emissione X diffusa ad alta energia è stata appena scoperta e al momento gli autori della ricerca non si sono sbilanciati su quale possa essere la sua natura. Per spiegarla basterà ricorrere a meccanismi già noti o si dovrà andare alla ricerca di qualcosa di più esotico?
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