La scienza in sella
Gli studi scientifici hanno permesso di migliorare il benessere di molti animali. Ma i cavalli? Le evidenze non mancano, ma l'approccio all'equitazione è spesso legato alla consuetudine. Ne parliamo con Rachele Malavasi, etologa equina
APPROFONDIMENTO – Nel rapporto quotidiano con gli animali non sempre pensiamo in modo scientifico. Di fronte a un cane o un gatto abbiamo imparato a leggere i segnali di un possibile malessere e con gli animali “da fattoria” siamo sempre più sensibili, specialmente quando scopriamo che cognitivamente hanno varie capacità in comune con Fido.
Il cavallo, al nostro fianco da più di 5.000 anni, gode molto meno dei progressi della ricerca. Ma gli studi non mancano: una review intitolata Riders impact on equitation (L’impatto dei cavalieri nell’equitazione) ha da poco fatto il punto, trattando gli aspetti che possiamo migliorare. Abbiamo colto l’occasione per fare una chiacchierata con Rachele Malavasi, etologa equina e consulente scientifica nell’ambito dell’equitazione etica. Come approcciarsi all’equitazione privilegiando il benessere del cavallo?
La forma fisica e l’attitudine del cavaliere sono molto importanti. “Un cavallo non nasce per avere una persona in groppa”, spiega Malavasi a OggiScienza, “di conseguenza i suoi muscoli della schiena devono essere allenati e noi abbiamo una grossa responsabilità: mantenerci in una forma fisica tale da poter fare movimenti sciolti. Il nostro peso, ad esempio, dovrebbe essere un quinto di quello del cavallo”.
Le buone pratiche iniziano molto prima di montare: anche salire in modo scorretto ha un impatto negativo sulla schiena del cavallo. “Bisogna fare meno leva possibile tra il nostro corpo e il suo, avvicinandoci con il fianco e da lì infilando il piede nella staffa”. Una scaletta, fino a quando non si riesce a farlo in modo fluido, è di grande aiuto per entrambi.
Dagli studi lo spunto per maggior consapevolezza
Se su vari aspetti è ancora la consuetudine a guidare le pratiche, dall’altra gli studi scientifici possono aiutare molto. Il tema dell’imboccatura è uno dei più critici e “il fatto che non si metta mai in discussione fa sì che siamo poco attenti a ciò che succede nella bocca del cavallo. Ma vari studi mostrano che anche un cavaliere esperto esercita una pressione intollerabile: in discipline di contatto come il dressage va dai 14 ai 60 Newton, la stessa che impieghiamo per sollevare una bottiglietta d’acqua nel primo caso, o tre chilogrammi di zucchero nel secondo”, prosegue Malavasi.
In uno studio in cui i cavalli dovevano poggiare la bocca su una barra per pochi secondi, per ottenere un premio, si è visto che erano disposti a farlo fino ai 6 Newton. Già a 10 scuotevano la testa o sceglievano di rimanere nel box rinunciando al cibo. “L’idea diffusa è che per molti esercizi sia necessaria, quando la chiave è non avere fretta. Con molta pazienza è possibile fare tutto senza imboccatura. Il riscontro sarà meno immediato, ma si sta scegliendo il benessere del cavallo. Non vuole essere una critica a chi nell’equitazione classica usa l’imboccatura, perché accedere a questo tipo di informazioni non è semplice e spesso non si conoscono le alternative”.
Un fraintendimento comune è che quando il cavallo “gioca” con il morso significa che è a suo agio. In realtà “non dovrebbe attivare funzioni come il masticamento, che è legato alla digestione e non c’entra niente con l’attività fisica di quel momento”, chiarisce Malavasi. “Sta solo cercando di fare in modo che quell’oggetto gli dia meno fastidio, spostandolo. Se osserviamo un cavallo che corre libero, senza imboccatura, lo fa con labbra e denti del tutto chiusi”.
I cavalli comunicano con noi, ma sappiamo ascoltare?
Insieme a Ludwig Huber dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna, Malavasi ha condotto uno studio, pubblicato su Animal Cognition, su come i cavalli comunicano con noi (ne avevamo parlato qui). Ha scoperto che manipolano la nostra attenzione verso un oggetto: in presenza di un secchio di cibo giravano la testa per far girare la sua e cercava di farle rivolgere lo sguardo verso il secchio. Sapevano che guardare equivale a prestare attenzione. Quando (intenzionalmente) Malavasi non rispondeva alla richiesta provavano ancora, tirandole la maglietta, muovendo la testa e la coda.
Ogni cavallo ci manda segnali, macro e micro, e dovremmo diventare in grado di riconoscerli entrambi. “I più introversi non mostrano il loro stato d’animo, proprio come facciamo noi. Ma allo stesso modo non riescono a nasconderlo del tutto e possiamo imparare a leggerli”, spiega Malavasi”. La comunicazione inizia quando arrivo al box: se mi avvicino e il cavallo si gira dall’altra parte, schiaccia la coda o le orecchie e non mi guarda, probabilmente quello che facciamo insieme non è gradevole. Come comportarsi?
“Posso fare un passo indietro e aspettare, come per chiedere il permesso. Pensiamo agli umani: ognuno di noi ha uno spazio personale e non sempre vogliamo accettare qualcuno al suo interno. Chi vuole avvicinarsi magari chiede “posso?”, mostrando attenzioni che con gli altri animali abbiamo di rado. Possiamo fermarci davanti al box, aspettando di vedere se il cavallo ci nota, se vuole interagire. Poi aprire e aspettare ancora, che sia lui a fare due passi verso di noi”.
I cavalli legano tra loro facendo grooming ma anche rimanendo fermi gli uni accanto agli altri, godendo della reciproca presenza. Noi con loro possiamo fare lo stesso e, ad esempio, arrivare al maneggio con un buon anticipo per stare semplicemente insieme.
Comunicare con efficacia fa bene a entrambi e, dal nostro lato, permette non solo di svolgere attività piacevoli, ma di capire subito se qualcosa non va. Imparando ad esempio a vedere i segni di dolore. Uno studio che ha coinvolto l’Università di Milano, nel 2014, ha elaborato la Horse Grimace Scale, un metodo che permette di capire se il cavallo prova dolore attraverso le grimace, “smorfie” o espressioni facciali. Occhi chiusi, orecchie rigide all’indietro e muscoli masticatori tesi sono tutti segnali che qualcosa non va.
Un movimento sensato
Per un rapporto che sia non solo positivo ma stimolante, per entrambi, bisogna essere creativi e cercare dimensioni della relazione che vadano oltre il cibo (ti porto una carota) o la performance (facciamo lezione). Tra le motivazioni principali dei cavalli c’è quella cinestesica, ovvero a muoversi rapidamente. “Se voglio davvero una relazione con il mio cavallo, prima di tutto non devo trattarlo come un oggetto e pensare che possa stare bene chiuso in un box tutto il giorno”, dice Malavasi. “Se questa è la sua giornata ed esce solo per fare attività con noi non c’è compromesso che tenga, non è vita davvero perché nessuna delle motivazioni etologiche viene soddisfatta”.
Ma il movimento deve avere un senso: tapis roulant, giostre, sono tutte attività che per il cavallo non hanno significato. Lo ha confermato qualche anno fa uno studio, mostrando che “otto cavalli su nove scelgono di non fare attività sul tapis roulant e di rimanere in box, piuttosto. Preferiscono stare fermi e al chiuso pur di non fare un movimento così privo di senso, esercizio fisico fine a se stesso che non va alla ricerca di risorse o dei compagni”.
Se a far muovere il cavallo sono io, in tondo e con una longhina, ma nel frattempo ne approfitto per fare una telefonata, “mi escludo a mia volta del tutto e gli tolgo anche la possibilità di un dialogo con me”, conclude Malavasi. “Anche nelle situazioni legate all’equitazione noi siamo dei consumatori e dobbiamo esserlo in modo consapevole. Nel momento in cui cominciamo a conoscere le opzioni e a scegliere, allora le cose iniziano a cambiare. Sempre più centri equestri, infatti, adottano una gestione naturale dei cavalli, che vivono insieme in branco”.
Per saperne di più sull’equitazione etica, sull’approccio cognitivo-relazionale e sulla gestione naturale dei cavalli, vi rimandiamo a quest’ulteriore intervista a Rachele Malavasi pubblicata su National Geographic Italia.
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