Pesca e oceani, frenare l’overfishing con i Big Data
I Big Data possono fornire dati preziosi sulla posizione e il percorso seguito dalle imbarcazioni coinvolte in operazioni di pesca illegale.
SPECIALE LUGLIO – La salute degli oceani è minacciata dall’overfishing, e bisogna intervenire in fretta, entro il 2030. Questo dato allarmante è emerso con chiarezza tra gli esiti dalla Conferenza sugli Oceani delle Nazioni Unite tenutasi lo scorso giugno a New York.
Il limite di tempo massimo indicato in quella occasione è lo stesso degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile ma trova una corrispondenza con quanto segnalato dalle previsioni, basate sull’andamento statistico negli ultimi anni della sovrapesca, su quello che potrà succedere agli ecosistemi marini se non si riduce in tempi brevi quell’eccesso di pescato che frena il naturale ripopolamento dei pesci.
Questo gap tra pesca e rinnovo della fauna ittica rappresenta la definizione stessa di overfishing, malattia che colpisce in misura diversa ma con stesse conseguenze tutti gli oceani, e di cui si è a conoscenza da molto tempo: molte specie vengono pescate in grande quantità più velocemente di quanto riescano a riprodursi, provocando danni enormi non solo per l’ambiente ma anche per l’economia.
Pesca sempre più fuori controllo (e con pochi controlli)
Oggi consumiamo pesce pro capite quanto mai abbiamo fatto in passato, circa 20 Kg all’anno secondo gli ultimi dati FAO disponibili (2013). Sempre secondo questi dati è salita al 32% la quantità di pesce sfruttata oltre i limiti di sostenibilità.
In generale, la quantità di pescato è aumentata con un trend crescente dal 1950 in poi per raggiungere un picco indicativo nel 1996 di 86 milioni di tonnellate – sempre secondo i dati FAO.
A essere sfruttato è quasi il 90% degli stock ittici mondiali, grazie anche a sistemi di pesca sempre più avanzati che consentono di raggiungere diverse centinaia di metri di profondità per una raccolta giornaliera di centina di tonnellate in un solo giorno.
Le enormi pressioni del mercato hanno già di fatto portato a uno stato di emergenza, rendendo la pesca improduttiva e non redditizia, e a farne le spese sono oggi soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Se fino a poco tempo fa si guardava ai bacini dell’antartico per garantire quantità sufficienti di pescato, sono ora i paesi più poveri costretti a scandagliare le proprie riserve marine per rifornire di pesce le nostre tavole, non solo per la propria sussistenza.
Quali sono le specie e le aree più minacciate dall’overfishing?
L’ultimo rapporto SOFIA (the State of the World Fisheries and Acquacolture), fornisce un quadro relativamente dettagliato dell’impatto dell’overfishing – nei limiti di un fenomeno complesso da analizzare. Considerando la sola pesca in mare aperto, ed escludendo l’acquacoltura che contribuisce comunque notevolmente al totale del pescato, nella classifica delle specie più pescate c’è il merluzzo d’Alaska, seguito dalle acciughe cilene e dal tonno striato. La pesca più intensiva riguarda le coste dei paesi asiatici e africani – compresi alcuni laghi come il Tanganika – solo nel 2014 in queste zone si contavano più di 4 milioni di pescherecci di piccola e media dimensione.
Si tratta, tuttavia, di numeri che risentono appunto di limiti d’analisi dovuti alla natura stessa dell’overfishing. Queste cifre vanno per esempio corrette per tutto il pescato non ufficiale, ovvero le enormi quantità di pesce di frodo e del pesce scartato. Secondo una ricerca della University of British Columbia, è di circa 32 milioni di tonnellate la quantità di pesce non dichiarato, ovvero addirittura il 53% in più dei dati FAO. Solo nelle zone insulari, specie in quelle asiatiche e africane, bisogna calcolare un 300% in più di pesca in nero, mentre dalle riserve dei paesi industrializzati la quota di pesca in nero non registrata scende al 20% – una quantità comunque fuori controllo e insostenibile, pari a una perdita economica tra i 10 e i 20 miliardi di dollari all’anno.
I Paesi più avanzati hanno risentito meno nell’ultima decade dell’overfishing, in gran parte grazie a (tardive) regolamentazioni. Questo non significa però che siano fuori pericolo. Il nostro Mediterraneo per esempio comprende alcune delle specie più richieste dal mercato ittico, pesce azzurro come la sardina, il merluzzo, la cernia, l’orata e soprattutto il tonno. I dati elaborati dagli ultimi report dell’ISC (International Scientific commitee for Tuna species), la popolazione dei tonni ha subito finora un collasso di più del 90% a causa della pesca.
Il tonno risulta essere un osservato speciale in particolare in Italia. Secondo un’analisi condotta dal Pew Research Center, il declino esponenziale della popolazione di tonni del Mediterraneo è iniziata tra gli anni ’80 e ’90, nonostante le normative all’epoca appena introdotte, arrivando, nel 2008, a superare del 31% la quota di massimo pescabile stabilita dal Conservation of Atlantic Tunas (ICCAT), e del 141% nel 2010.
Contare con i GPS aiuta… ma non basta
Il grado di complessità di un sistema naturale come quello marino è elevatissimo, e non è quindi un’impresa semplice catalogare quanti e quali pesci sono ospitati nei mari. Nel tempo sono state messe a punto diverse strategie statistiche per provare a formulare dei modelli efficaci, come gli EBM (Ecosystem Based Managment) che analizzano più specie contemporaneamente e le loro reciproche interazioni, o come le analisi che individuano quali specie tra predatori e prede sopravvivono alla pesca.
Possiamo far riferimento a censimenti della vita marina anche relativamente recenti e aggiornati, ma come sosteneva David H.Cushing, biologo esperto di fauna ittica, “Per conoscere con certezza quanti pesci popolano un ecosistema, dovremmo pescarli tutti e poi contarli”.
Si tratta di numeri davvero enormi, a cui possono tener testa inoltre nuovi strumenti di analisi di Big Data. I sistemi di identificazione automatica AIS (Automated Identification System), per esempio, possono fornire dati preziosi sulla posizione e il percorso seguito dalle imbarcazioni coinvolte in operazioni di pesca illegale.
Tra i principali progetti attivi in questo senso ci sono Project Eyes on the Seas e Global Fishing Watch, promossi e finanziati, tra gli altri, da Google.
Il funzionamento di queste tecnologie è piuttosto semplice: tutti i pescherecci internazionali hanno l’obbligo di fornire la loro posizione GPS a un database internazionale per informare le altre imbarcazioni ed evitare così incidenti o intralci durante la navigazione, un po’ come per il traffico aereo. I dati dei sensori GPS sono inoltre di pubblico accesso, ed è stato quindi possibile costruire un database con sito associato dove chiunque può vedere quando un’imbarcazione entra in un’area marina protetta o quando spegne all’improvviso i sensori GPS. Si possono insomma stanare i pirati del mare.
L’idea alla base di questa google map della pesca globale è quella di rendere trasparente le operazioni di pesca, informare i consumatori sulla provenienza del pesce e scoraggiare quindi l’acquisto di merce non dichiarata.
Con quasi 4 miliardi di spot individuati, solo nel biennio 2012-2013 sono state intercettate più di 100mila imbarcazioni, un database che si è rivelato utile per esempio nell’area indonesiana.
Nella caccia ai pescatori illegali, i big data da soli non possono però risolvere il problema: in realtà non tutte le imbarcazioni sono dotate di sistemi di rilevazione satellitare per traccia dei loro spostamenti, ne sono più sprovviste proprio le zone maggiormente colpite da pesca di frodo, ovvero le zone più povere come le acque delle isole del pacifico; le imbarcazioni del resto sono generalmente troppo piccole per poter essere equipaggiate con queste strumentazioni e si tratta di strumenti ancora troppo costosi per poter essere gestiti su larga scala.
In definitiva, se manca l’intervento diretto in acqua per fermare la pesca di frodo e, a monte, l’applicazioni di leggi appropriate, i numeri da soli possono fare ben poco per salare le riserve degli oceani in previsione della scadenza del 2030.
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