Le origini del disgusto studiate negli scimpanzé
L'odore di immondizia, la carne guasta, un cartone di latte andato a male: il disgusto ci tiene al sicuro da molte cose, e le radici di questa reazione si possono studiare anche in altre specie.
SCOPERTE – Il disgusto è un meccanismo estremamente potente che si è evoluto, probabilmente, per tenerci alla larga da patogeni e parassiti. Ci disgustiamo di fronte a una ferita purulenta o a un cartone di latte rancido, nel sentire il tanfo di immondizia o la puzza di escrementi, e questa reazione quasi automatica ci ha protetto (e continua a proteggerci) dal contagio con malattie pericolose o dall’ingestione di cibo avariato. Allo stesso tempo una lingua tirata fuori o la smorfia che compare sul nostro viso, mentre scattiamo all’indietro per allontanarci dall’oggetto di disgusto, sono “segnali di pericolo” che chi ci sta intorno può vedere.
In tutti questi casi il disgusto sembra quasi innato – nessuno ci ha insegnato a trovare cattivo l’odore dei rifiuti o della carne guasta – ma la cultura e le influenze dell’ambiente, nei secoli, hanno avuto un ruolo importante. Oggi una gustosa bistecca al sangue può far venire l’acquolina in bocca a una persona ma repellere un’altra, proprio come una pesante ubriacatura può farci odiare anche la più ricercata delle bevande alcoliche. Appena qualche anno fa, come se non bastasse, i bambini si scambiavano entusiasti le figurine da collezione puzzolenti.
Nella stessa definizione di Darwin, il disgusto è una sensazione scatenata da qualcosa di rivoltante, inizialmente “legata al senso del gusto, realmente percepito o immaginato in modo vivido; in secondo luogo a qualsiasi cosa scateni un simile sentimento attraverso l’olfatto, il tatto o addirittura la vista”. Non qualcosa di puramente soggettivo ma un sistema che si è evoluto appositamente per rilevare i rischi di contaminazione e tenerci al sicuro.
Ma dove affonda le sue radici il disgusto? Studiarlo nelle altre specie può aiutarci a comprenderlo meglio? A quanto pare sì: quando gli scimpanzé toccano per sbaglio qualcosa di umido e molliccio reagiscono allo stesso modo, ritraendo la zampa. Per di più sapere che un alimento è stato esposto a contaminanti biologici, come le feci o il sangue, influenza le loro decisioni. A spiegarlo sono i ricercatori del Primate Research Institute dell’Università di Kyoto, che su Royal Society Open Science esaminano la questione del disgusto in questa specie così vicina a noi.
Quando gli scimpanzé vivono in cattività non è raro che siano coprofagi, ovvero si nutrano delle loro stesse feci. Gran parte dei semi che hanno mangiato potrebbe essere sopravvissuta alla digestione pressoché intatta (d’altronde i semi servono a questo) e per non sprecare queste piccole miniere di nutrienti fanno loro fare… un secondo giro. Ma anche nel loro ambiente naturale questi primati non sono da meno, e non è raro vederli piluccare i semi direttamente dagli escrementi, i propri o quelli di altri scimpanzé con loro imparentati, per mangiarli. Fin qui niente di strano: molti animali, compresi cani, conigli e insetti fanno lo stesso.
Ma se le feci sono di un perfetto sconosciuto, è tutta un’altra faccenda.
In una serie di esperimenti i ricercatori hanno messo di fronte agli scimpanzé una scatola opaca: all’interno c’era un pezzo di cibo, posizionato in cima a una corda o a una soffice e umida pagnotta di impasto. Se nel primo caso procedevano a raccogliere il cibo senza esitazioni, nel secondo, appena entrati in contatto con la superficie molliccia ritraevano la zampa proprio come faremmo noi. Come se in una superficie simile fosse insito un qualche pericolo, non presente invece nella corda dura e asciutta. Lo stesso accadeva quando il cibo era posizionato su una riproduzione finta di feci o su un pezzo di schiuma solida marrone; la prima superficie faceva ritrarre gli scimpanzé.
Parlare di disgusto potrebbe essere un passo eccessivo verso una reazione umana, ma di sicuro stavano evitando il contatto; dopo una prima esitazione, precisano gli scienziati, gli scimpanzé hanno in genere deciso di mangiare comunque. Nel meccanismo entravano in gioco tutti i sensi: quando gli scimpanzé potevano annusare il contaminante ma non vederlo (i ricercatori avevano sporcato la superficie intorno al cibo con liquido seminale o altri liquidi corporei) solo pochi di loro hanno scelto di non nutrirsi.
Secondo Andrew MacIntosh, autore senior dello studio, è spontaneo calarci nei panni degli scimpanzé e pensare “io farei lo stesso se toccassi per errore qualcosa di viscido e bagnaticcio”. Ma è presto per cedere all’empatia e dire che le sensazioni che provano sono le stesse che proviamo noi, legate allo stesso tipo di percezione e disgusto. La cosa interessante, però, è che “le reazioni che abbiamo osservato sono funzionalmente simili a quelle che avremmo noi, il che prova che il meccanismo che guida il loro comportamento potrebbe essere simile al nostro”, dice MacIntosh in un comunicato.
Oltre a permetterci di comprendere il valore del disgusto, studiare le reazioni nelle altre specie può essere utile anche per garantirne benessere e sicurezza quando sono sotto la nostra custodia. Proprio come conoscere la personalità degli animali può aiutare la conservazione, sapere che un individuo è più o meno sensibile ai contaminanti consente di individuare quelli a maggior rischio di infezioni e che necessitano dunque di più controllo.
Ma il lavoro “disgustoso” non si fermerà qui, perché ora gli scienziati pianificano di studiare i meccanismi della repulsione in altre specie, anche al di fuori dei primati.
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