Stelle fredde per esopianeti caldi: il paradosso del Sole giovane e debole
Un nuovo modello spiega come potrebbe essere stato prodotto il metano necessario a mantenere al caldo la Terra primordiale nonostante il freddo Sole di 3 miliardi di anni fa.
SCOPERTE – Se una stella è fredda, lo saranno anche i pianeti che vi orbitano intorno. Una conclusione ovvia che però si è rivelata sbagliata. Tre miliardi di anni fa, il nostro Sole splendeva più debolmente rispetto a oggi, ma nonostante questo la Terra era incredibilmente calda. A riscaldare il pianeta un effetto serra, prodotto da un gas come il metano, secondo il paradosso del Sole giovane e debole ipotizzato dall’astronomo Carl Sagan.
Ma come era stato prodotto tanto metano nell’atmosfera da riscaldare la Terra primordiale? Un nuovo modello sviluppato dai ricercatori del Georgia Institute of Technology e dell’Astrobiology Institute della NASA ha analizzato 359 processi chimici e ha individuato i possibili scenari di produzione del metano necessario per creare un tale effetto serra. Un risultato che è stato pubblicato sulla rivista Nature Geoscience e che sarà utile non solo per capire la storia e l’evoluzione del nostro pianeta, ma anche per interpretare e comprendere le condizioni degli esopianeti simili alla Terra che orbitano intorno a stelle più deboli e giovani del nostro Sole.
Un modello completo e innovativo
Il modello sviluppato dai ricercatori guidati da Kazumi Ozaki e Chris Reinhard della School of Earth and Atmospheric Sciences della Georgia Tech è il primo e più completo, perché tiene conto sia dei molteplici processi metabolici microbici, come per esempio diverse forme di fotosintesi, sia delle attività vulcaniche, oceaniche e atmosferiche che possono aver influenzato la composizione dell’atmosfera della Terra primordiale 3 miliardi di anni fa. Una composizione ricca di metano che ha reso il pianeta temperato, salvandolo da un congelamento lungo secoli che avrebbe probabilmente impedito lo sviluppo e l’evoluzione di forme di vita complesse come oggi le conosciamo.
I modelli precedenti infatti avevano preso in esame un mix di gas atmosferici necessari a tenere il pianeta al caldo nonostante la debolezza del Sole, oppure avevano studiato solo uno per volta i metabolismi microbici, non ottenendo mai la quantità di metano necessaria a confermare il paradosso di Sagan. “Presi singolarmente, i metabolismi non erano in grado di produrre i livelli di metano richiesti per dimostrare il paradosso”, ha spiegato in un comunicato Reinhard.
Per questo motivo i ricercatori non hanno studiato i singoli metabolismi microbici, ma hanno creato un modello che tenesse conto del loro lavoro in sinergia e la produzione di metano, con queste premesse, si è letteralmente gonfiata, come ha sottolineato Ozaki: “È importante pensare ai meccanismi che controllano i livelli di gas serra nell’atmosfera nel quadro di tutti i cicli biogeochimici nell’oceano e nell’atmosfera stessa”.
Il paradosso del Sole giovane e debole
Tutto iniziò nel 1972, quando l’astronomo Carl Sagan e il collega George Mullen, della Cornell University, notarono che le stelle bruciano debolmente durante la loro giovinezza. I due astronomi hanno stimato che circa 3 miliardi di anni fa, il nostro Sole splendeva il 25% più debolmente rispetto ad oggi. Proprio quella luce debole avrebbe dovuto implicare un pianeta troppo freddo perché fosse possibile trovarvi acqua allo stato liquido, ma i reperti geologici dimostrano che, paradossalmente, l’acqua sul pianeta era liquida e il clima ben più temperato di quanto atteso, anzi con temperature medie anche di poco superiori a quelle registrate oggi.
Sagan e Mullen allora ipotizzarono che un gas avesse prodotto un effetto serra in modo da evitare il congelamento del pianeta e pensarono all’ammoniaca, un’ipotesi che si rivelò però poco probabile. “Il metano ha avuto un ruolo chiave in questa ipotesi”, ha commentat0 Reinhard. “Quando ossigeno e metano entrano nell’atmosfera, si cancellano chimicamente l’un l’altro nel tempo attraverso una complessa catena di reazioni chimiche. Dato che a quei tempi l’ossigeno era troppo poco, i livelli di metano potevano aumentare ed essere molto più alti di quelli odierni”.
Due fotosintesi per 3 milioni di simulazioni
Oltre all’attività vulcanica e oceanica, c’erano due processi di fotosintesi che potevano produrre gli elementi necessari a favorire un’atmosfera ricca di metano. Si tratta di processi di fotosintesi diversi da quella che oggi è dominante sul pianeta e che produce ossigeno dall’anidride carbonica. I due processi erano molto importanti per l’antica biosfera terrestre. Il primo era attuato da batteri nell’oceano, che trasformavano il ferro presente in ruggine. L’altro invece trasformava le grandi quantità di idrogeno espulse dall’attività vulcanica in formaldeide, che veniva poi metabolizzata da altri batteri producendo metano.
Gli scienziati hanno lanciato le simulazioni del modello oltre 3 milioni di volte, cambiando di volta in volta i parametri, analizzando così i possibili scenari che si sarebbero verificati da 359 diverse reazioni biogeochimiche che si potevano verificare sia negli oceani, sia nell’atmosfera o sotto terra. Proprio queste simulazioni hanno permesso al gruppo di ricerca guidato da Ozaki di stabilire che le due tipologie di fotosintesi lavorando in coppia erano in grado di produrre il metano necessario a verificare le ipotesi del paradosso.
“I risultati si traducono in circa il 24% di probabilità di ottenere un clima caldo e stabile sulla Terra primordiale con un Sole debole,” ha spiegato Reinhard. “Una condizione che il modello può verificare anche per esopianeti che orbitino attorno a stelle anche più deboli della nostra. Gli altri modelli che hanno analizzato i due metabolismi fotosintetici singolarmente hanno probabilità molto più basse di produrre il metano necessario a mantenere un clima caldo. L’approccio statistico utilizzato nel nostro studio ci rende fiduciosi per le informazioni che potremo in futuro raccogliere e processare”.
Dal passato della Terra alla caccia agli esopianeti
Finora le altre possibili spiegazioni per il paradosso del Sole giovane e debole hanno analizzato scenari molto più catastrofici, dall’impatto di un grande asteroide che stimolò l’attività sismica a potenti e continuative eruzioni solari dalla corona giunte fino al pianeta, riscaldandolo. Nessuna di queste spiegazioni però è sembrata convincente e il modello, che analizza la chimica dei processi biologici e geologici della Terra primordiale, sembra dare una spiegazione migliore alla teoria. Un modello che non solo offre uno sguardo al nostro passato, ma che può essere utilizzato per comprendere cosa accade ad anni luce di distanza da noi sugli esopianeti recentemente scoperti, come ha illustrato Reinhard: “I modelli sul metano atmosferico che stiamo elaborando in questo momento per il nostro pianeta potrebbero rappresentare delle condizioni comuni anche alle biosfere di altri pianeti nella nostra galassia, perché non si riferiscono ad uno stadio evolutivo avanzato come quello della Terra di oggi”.
Proprio per questo motivo i ricercatori hanno scelto di utilizzare parametri ampi nelle simulazioni, da poter poi riadattare anche ai “fratelli” della Terra, con le loro varie dimensioni, composizioni chimiche e geologiche e potenziali forme di vita.
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