Vetrine olografiche, la nuova narrazione che serve ai musei europei
La vetrina olografica dell’ITABAC mette insieme concetti e strumenti virtuali in modo del tutto inedito. Farà il giro dei musei europei, protagonista di una sperimentazione per rinnovarne il linguaggio
ANNO DEL PATRIMONIO CULTURALE – Il patrimonio artistico europeo non è sempre raggiungibile e fruibile facilmente, per quanto sia al centro di iniziative importanti come l’Anno Europeo per il Patrimonio Culturale. Se per i cittadini europei diventa spesso complicato godere delle risorse culturali vicino casa, sperare di avvicinarsi a beni più lontani e di diversa provenienza con soluzioni facili e comode è quasi impossibile. Tuttavia, tecnologie innovative – ma in realtà non proprio nuovissime – sono in grado oggi di superare certi ostacoli e adattare i luoghi della cultura a un pubblico capace ormai di comunicare con i nuovi media, consapevole dei nuovi linguaggi, e quindi sempre più esigente.
Da banconote antifalsari a mummie del British Museum (passando per Obi Wan Kenobi)
Sono passati settant’anni dall’invenzione della tecnologia olografica. Nel 1948, il fisico ungherese Dennis Gabor pubblicò sul National Proceeding of the Royal Society la sua teoria relativa a una scoperta avvenuta l’anno prima un po’ per sbaglio e per serendipity, mentre cercava di migliorare le prestazioni del microscopio elettronico.
Gabor trovò un nuovo modo di creare immagini, che battezzò su quella pubblicazione come ologramma, nome scelto per via dell’etimologia greca holos e grafè, ovvero «descrizione, o disegno, completo». A differenza di una normale fotografia, bidimensionale, un ologramma restituisce l’illusione di avere di fronte l’oggetto vero e proprio, con una visione tridimensionale.
Le potenzialità dell’invenzione di Gabor iniziarono ad essere evidenti e ad acquisire spazio solo a partire dagli anni ‘60, con l’arrivo dei laser, tanto da meritargli il premio Nobel per la Fisica nel 1971. La luce laser, infatti, essendo monocromatica e coerente, risulta più pulita e consente la registrazione di immagini prive di distorsioni, l’ideale per creare ologrammi. Le immagini con illusione della tridimensionalità hanno quindi trovato maggiore spazio di applicazione. Si tende forse a pensare alle immagini olografiche come una magia possibile solo nella science fiction, una prerogativa di droidi di altre galassie.
In realtà oggi troviamo ologrammi in applicazioni quotidiane e tangibili, come i metodi per evitare la contraffazione delle banconote, nel packaging per alimenti, vengono usati molto in ricerca scientifica e per l’archiviazione dei dati, e, ovviamente, anche nel cinema e in altri comparti di produzione e diffusione delle arti, soprattutto nei musei.
Così come altre promettenti tecnologie, secondo alcuni esperti di innovazione, anche gli ologrammi hanno perso un po’ del loro appeal per aver in parte disatteso le aspettative, nonostante il loro tasso di pervasività si sia innegabilmente allargato rispetto alle prime difficoltà riscontrate da Gabor. In questo senso, un primo segnale indicativo di una mancata, o quantomeno non adeguata evoluzione di questi strumenti va cercato proprio nei musei. Tuttavia, anche se le proiezioni olografiche o la realtà virtuale non sono ancora adatte a qualsiasi tipologia espositiva, le innovazioni nel comparto ICT (Information and Communication Technologies), risultano essere ancora un strumento irrinunciabile per la crescita dei musei, in alcuni casi molto più che per altre industrie e istituzioni culturali – i media in generale, le librerie, la scuola eccetera.
Linguaggio e rapporto con il pubblico devono rinnovarsi
Secondo il rapporto Museum and Virtual Museum in Europe, redatto dall’ITABC-CNR in seguito al progetto V.Must.Net, il ruolo del museo non può più essere solo quello di vetrina di beni artistici, così come definito dall’International Council of Museum . Dei circa ventimila musei europei censiti dell’Abridged List of Key Museum , la maggior parte di questi ha bisogno, secondo questo studio, di un aggiornamento importante in termini di linguaggio e rapporto con il pubblico, per stare al passo con le mutazioni eccezionalmente veloci e liquide degli ultimi anni.
Una nuova percezione del museo e nuove esigenze da soddisfare riguardano molte delle più importanti categorie espositive (arte, archeologia, storia, scienza e tecnologia eccetera). La “flessibilità” cercata dal pubblico va individuata in termini di interattività, visualizzazione e, soprattutto, narrazione. La tipologia che meglio si presta a queste sfide è il museo virtuale, da non considerarsi più come una semplice copia digitale dell’esposizione o una versione online di una galleria. L’obiettivo è quello di offrire in loco un’esplorazione completa del bene artistico o del reperto archeologico, magari acquisendo informazioni provenienti da altri luoghi espositivi, altrimenti non raggiungibili – un po’ come già si fa con gallerie tematiche che raccolgono capolavori provenienti da tutto il mondo, ma con un respiro ancor a più ampio. Le tecnologie ICT sono state utilizzate già a partire dagli anni ’70, per esempio in archeologia.
Il primo museo virtuale vero e proprio è stato inaugurato nel 1995, con l’esplorazione interattiva della tomba di Nefertari. Le strategie virtuali nelle esposizioni museali, gli ologrammi e la realtà aumentata hanno in seguito avuto fortune alterne. Tra le ultime esperienze di maggiore successo internazionale ci sono, per esempio, Heores and Legends al Kennedy Space Center, che riporta in vita gli astronauti della corsa allo spazio, il Jinsha Site Museum che consente di fare un balzo nel tempo di 3000 anni nella Cina degli Shu. Oppure, guardando all’ Europa, Il National Museum of Natural History a Parigi con l’istallazione sull’evoluzione del LUCA, il Tate di Londra con l’esperienza VR integrata nella collezione Modigliani , o l’uomo di Lidow, la mummia vecchia di 2300 anni visibile al British Museum solo col suo ologramma, oltre a specifici prodotti di realtà virtuale di altro tipo come quelli dell’Eumuseum – Europeana
Nei musei una nuova stagione di innovazione grazie al CNR
Un’iniziativa che si avvicina particolarmente, più di altre, a quanto previsto e auspicato dagli esperti è un progetto messo a punto dal nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche. Nell’ambito del nell’ambito del progetto CEMEC (Connecting European Early Medieaval Collections), l’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR, in collaborazione con realtà imprenditoriali dedicate alla conservazione e vari curatori museali, ha infatti negli ultimi mesi concepito, realizzato e inaugurato una vetrina olografica. La vetrina olografica dell’ITABAC è un’installazione che mette insieme per la prima volta concetti e strumenti virtuali in modo del tutto inedito e originale, e che farà il giro di musei europei anche ai fini di una sperimentazione museale.
Si tratta in sostanza di un box espositivo dotato di contenuti digitali che non sono collocati in spazi separati rispetto agli oggetti d’arte. Le informazioni, infatti, vengono invece proposte, generalmente con proiezioni, nello spazio stesso dell’oggetto, riportandolo in vita grazie a un flusso narrativo. Questa “Scatola delle storie” è stata messa a punto dai ricercatori CNR attorno a una spada appartenuta a un guerriero Avaro vissuto nella metà del VII secolo d.C., la cosiddetta spada Kunágota, proveniente dal museo di Budapest e parte di un corredo funerario trovata in una tomba nella regione sud-orientale dell’Ungheria.
Gli ologrammi della scatola offrono allo spettatore un’esperienza sensoriale divisa in tre fasi complementari: la prima, “La storia”, una visione neutrale dell’oggetto esposto, è costituita da didascalie multimediali e ingrandimenti virtuali dei dettagli decorativi che interagiscono con l’oggetto reale; nella seconda, intitolata “La vita”, più analitica, la componente virtuale integra l’esposizione dell’oggetto reale con una drammatizzazione della sua storia e della sua creazione; la terza e ultima fase, “L’addio e il regno di Tengri”, contestualizza l’oggetto nella tomba di provenienza, trasportandolo i una visione simbolica dell’aldilà.
La vetrina olografica viaggerà fino al 2019 fra i vari musei nazionali europei partner del progetto, ovvero il Museo Allard Pierson di Amsterdam, il Museo Nazionale Ungherese di Budapest, il Museo di Arte Bizantina e Cristiana di Atene, il LVR-LandesMuseum di Bonn, il Museo di Bruxells. La scatola si trova inoltre al seguito della mostra itinerante Crossroads, che tratta della storia e dell’arte dell’Alto Medioevo. Nell’ambito di Crossroads sono state realizzate narrazioni virtuali per altre vetrine olografiche, più piccole rispetto alla spada Kunágota, progettate per gioielli altomedievali ospitate da altri musei partners della mostra.
Come spiegato nei risultati presentati alla conferenza Eudolearn 2017 da Eva Pietroni, responsabile scientifico CNR del progetto, questa ritrovata innovazione dell’olografia riesce ad arrivare a un approccio comunicativo che inverte la rotta dello storytelling museale, dalla rigidità cronologica a una narrazione coinvolgente e più ricca.
Le distanze spaziali e temporali del patrimonio culturale, vengono, in sostanza, azzerate.
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