AMBIENTE

Dai batteri le forbici molecolari per riciclare la plastica

Gli scienziati hanno ricreato due enzimi batterici che, ottimizzati, in futuro potrebbero permetterci di degradare la plastica e di riciclarla senza petrolio greggio.

Crediti: Copyright M. Künsting/HZB

La plastica è un materiale estremamente versatile e che dura in eterno. Proprio questa, che poteva sembrare una qualità, è in realtà un grave problema per l’ambiente e per l’umanità. Negli ultimi 100 anni la produzione di plastica ha avuto il suo boom e oggi le particelle inquinanti e non biodegradabili si trovano ovunque. Dalle isole di plastica che si sono formate negli oceani fino alle microplastiche, trovate anche negli abissi oceanici e i cui effetti negativi conosciamo sempre meglio: anche quanto toccano gli organismi marini. Senza contare quelle che mangiamo, quando risalgono la catena alimentare attraverso il pesce. Il riciclo pulito di questo materiale immortale si fa sempre più necessario e un nuovo possibile approccio arriva dalle “forbici “molecolari”, scoperte dai ricercatori dell’università di Greifswald e del centro Helmholtz di Berlino.

Ogni anno vengono prodotte oltre 50 milioni di tonnellate del polimero PET per l’industria, ma solo una piccola parte viene riciclata del tutto attraverso processi non solo molto costosi, ma che richiedono un grande consumo di energia. Da questi processi si ottengono prodotti degradati o che – per dare vita a polimeri nuovamente utilizzabili – richiedono l’aggiunta di ulteriore greggio. Nel 2016 i ricercatori giapponesi del Kyoto Institute of Technology, guidati da Shosuke Yoshida, hanno scoperto un batterio chiamato Ideonella sakaiensis dotato di un enzima che digerisce la plastica e se ne nutre.

Nello specifico, gli scienziati giapponesi hanno individuato due enzimi: PETase che degrada la plastica in blocchi più piccoli e MHETase, in grado di scomporre il PET nei suoi mattoni elementari, l’acido tereftalico e il glicole etilenico. Un risultato importante, perché partendo da questi componenti è possibile produrre nuovo PET senza l’aggiunta di greggio, ottenendo così un ciclo di produzione e recupero della plastica chiuso e sostenibile.

Come funzionano questi enzimi?

Dopo la scoperta del batterio in grado di digerire la plastica, nell’aprile 2018 alcuni gruppi indipendenti d ricercatori sono riusciti a risolvere la struttura dell’enzima PETase, scoprendone il funzionamento. Il nuovo studio condotto invece dai ricercatori tedeschi e pubblicato sulla rivista Nature communications ha permesso di svelare la struttura del MHETase. Gert Weber, biochimico e biologo strutturale del gruppo di ricerca Protein Crystallography del Centro Helmholtz e della Freie Universität di Berlino, ha spiegato:

“Il MHETase ha una struttura molto più grande e complessa rispetto a quella del PETase. Una singola molecola più grande rispetto al PETase e molto più complessa. Una molecola di MHETase consiste di 600 amminoacidi, o circa 4000 atomi. L’enzima ha una superficie che è larga circa il doppio di quella del PETase e ha quindi un maggior potenziale ottimizzabile per la decomposizione del PET”.

Durante un periodo come professore ad interim alla University of Greifswald, Weber ha conosciuto il professor Uwe Bornscheuer e insieme hanno sviluppato l’idea di risolvere la struttura del MHETase per riprodurre l’enzima che degrada la plastica e ottimizzarlo per il riciclo dei polimeri di PET. I ricercatori hanno estratto l’enzima dai batteri e l’hanno purificato. Poi hanno utilizzato la luce di sincrotrone al BESSY per studiarne la complessa struttura tridimensionale. Weber ha spiegato: “Per vedere come il MHETase si lega al PET e lo decompone, è necessario un frammento di plastica che si leghi all’enzima, ma che allo stesso tempo non venga tagliato da esso”.

Decomporre una bottiglia

Gottfried Palm, autore dello studio e ricercatore della University of Greifswald, ha utilizzato una comune bottiglia di plastica in PET, la ha decomposta chimicamente e ha creato un frammento che si legasse all’enzima, un MHETase “bloccato” che non potesse essere tagliato. Proprio su questi piccoli cristalli così ottenuti i ricercatori hanno studiato la struttura dell’enzima, sviluppando una strategia per la sua produzione e ottimizzazione.

Analizzando la struttura tridimensionale del MHETase, i ricercatori hanno scoperto alcune sue particolari caratteristiche che sono ora riproducibili in laboratorio. L’enzima infatti si lega alla molecola bersaglio prima che inizi la reazione chimica. Per poter tagliare la molecola, spiega Weber, è necessaria la presenza di un enzima che agisca da forbice molecolare. “Conoscendo la struttura delle molecole di MHET, siamo in grado di capire dove si legano all’enzima e come vengono divise nei blocchi elementari di acido tereftalico e glicole etilenico”. Nessuno dei due enzimi però è ancora così efficiente da poter garantire un riciclaggio pulito e totale delle plastiche in circolazione.

Per Weber, il motivo di questo meccanismo ancora non del tutto efficiente, dipende dalla recente età delle materie plastiche, che sono in circolazione su grande scala solo da pochi decenni. I batteri, anche quelli dall’evoluzione più rapida, non hanno così avuto modo di sfruttare la loro grande adattabilità per sviluppare dei processi di smaltimento della plastica efficaci. Conoscere nel dettaglio questi due enzimi offre quindi enzimi come il MHETase in grado di degradare anche prodotti intermedi del PET, come ad esempio il polimero BHET.

L’obiettivo di Weber e colleghi ora è quello di riuscire a produrre enzimi che possano digerire la plastica, con applicazioni che avrebbero un importante impatto sullo smaltimento di questi materiali e sull’ambiente. Riuscire a produrre gli enzimi che agiscono da forbici molecolari e tagliano la plastica per poi digerirla è un passo chiave nello sviluppo di un processo di riciclaggio ideale che potrebbe aiutare a risolvere a lungo termine il problema dei rifiuti di plastica.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Veronica Nicosia
Aspirante astronauta, astrofisica per formazione, giornalista scientifica per passione. Laureata in Fisica e Astrofisica all'Università La Sapienza, vincitrice del Premio giornalistico Riccardo Tomassetti 2012 con una inchiesta sull'Hiv e del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica Giancarlo Dosi 2019 nella sezione Under 35. Content manager SEO di Cultur-e, scrive di scienza, tecnologia, salute, ambiente ed energia. Tra le sue collaborazioni giornalistiche Blitz Quotidiano, Oggiscienza, 'O Magazine e Il Giornale.