Parlare di autismo e Asperger, sui media e nella quotidianità
Padroneggiare un linguaggio rispettoso e aggiornato dovrebbe essere una priorità quando si parla di persone e salute, ancor più se i temi sono complessi. Cosa sta andando storto?
Quando pensiamo a cosa scrivere – e come farlo – rischiamo di perdere di vista chi effettivamente leggerà. Non a caso nei manuali di scrittura si invita alla semplicità, all’usare un registro linguistico appropriato al pubblico e avere da subito chiaro qual è quel pubblico. A chi sto parlando? Chi potrei raggiungere, anche se non era il mio obiettivo?
Se c’è un ambito nel quale il diretto interessato è spesso dimenticato, come se fosse relegato in un luogo remoto senza accesso a Internet o contatti con il mondo esterno, è l’autismo. Leggendo articoli sui media o contenuti in genere la percezione è che siano rivolti solo a genitori, educatori e – nel caso delle pubblicazioni accademiche – ai soli scienziati, come se a nessun autistico venisse in mente di cercare su Google qualcosa che lo riguarda.
Il 18 febbraio cade la Giornata internazionale della sindrome di Asperger (ascritta nel DSM-5 ai disturbi dello spettro autistico) e viene spesso persa un’occasione per parlare bene di un tema trattato in genere con superficialità, partendo dalla riflessione sulle parole che usiamo. La terminologia e le differenze tra autismo e Asperger, ad esempio, creano ancora molta confusione, ed è un aspetto sul quale si potrebbe lavorare: creare continuità entro lo spettro autistico ma anche nella percezione che ne ha la società.
Che differenza c’è tra Asperger e autismo? Tutti gli Asperger hanno un’intelligenza sopra la media? Perché tanti ricevono la diagnosi da adulti, magari dopo quella dei figli? Cosa hanno in comune una persona “ad alto funzionamento” e una “a basso funzionamento”? Ha peraltro senso parlare di funzionamento? Esiste l’autismo femminile? Cosa intendiamo per sensorialità? Molti non saprebbero rispondere.
Come anticipato, la versione di riferimento del DSM al 2021 (il DSM-5 del 2013) ascrive l’Asperger allo spettro autistico, ma molti – ragazzi, adulti, anziani – autistici continuano a usare questa definizione e identificarvisi, una scelta che va rispettata e non delegittimata.
I livelli diagnostici dell’autismo sono stati introdotti da diversi anni ma non sono entrati nelle conoscenze comuni e nel linguaggio “quotidiano”. Parlare di Asperger porta con sé, per i diretti interessati, una forte componente identitaria e di appartenenza. Inoltre, «Quando un adulto che in precedenza ha ricevuto una diagnosi di Asperger inizia a descriversi come autistico può non essere creduto, perché la gente comune considera quest’ultimo termine associato a una grave disabilità» (Attwood 2019).
Le parole sono importanti
Quando parliamo di Asperger stiamo parlando di autismo senza disabilità intellettiva. Sottolineare le differenze – parlando di forme lievi o gravi e citando il funzionamento (nel DSM-5 sono stati introdotti 3 livelli di autismo in base alle necessità di supporto) – non aiuta, soprattutto perché il grande pubblico conosce poco lo spettro autistico. Le campagne di informazione usano molto il termine consapevolezza, ma ciò che manca davvero è la comprensione della neurodiversità. Nonché, come celebrato dall’iniziativa dell’Autism acceptance month in aprile, l’accettazione.
Accettare che l’autismo è “parte dell’esperienza umana”, che i diritti autistici sono diritti umani, che tanti autistici nelle condizioni meno svantaggiate dello spettro possono parlare di sé chiarendo quali sono le peculiarità, i punti di forza e le necessità di una persona neurodiversa: non chiedono che di essere ascoltati. Complice la poca cura dei media, oltre alla complessità innata dell’argomento, non è raro che vengano invece accolti da quello che viene identificato con il termine gaslighting: delegittimare l’esperienza personale in una forma di violenza psicologica che può portarla a dubitare di sé e di ciò che sente, vede e percepisce. Succede ogni volta che, a chi parla apertamente della propria vita come Asperger, viene detto che “l’autismo vero è un’altra cosa”, che le sue difficoltà non sono che idiosincrasie, che “siamo tutti un po’ autistici”.
Anche nell’accademia le voci autistiche sono poco ascoltate e rappresentate, un problema che è anche un’opportunità: come si legge su Autism rispetto alla ricerca partecipativa, che include i diretti interessati nel processo, “nel contesto di una ricerca sull’autismo ormai ampia e ancora in crescita, dove la partecipazione è ancora poco implementata e alcune evidenze mostrano l’insoddisfazione della comunità [autistica], c’è il grosso potenziale per fare ricerca partecipativa sull’autismo”.
Su Autism in Adulthood Sandra Lebenhagen della University of Calgary, Canada, aggiunge che “gli individui autistici riportano spesso che le loro esperienze vengono minimizzate o interpretate, seppur con buone intenzioni, da genitori non autistici, da ricercatori, educatori e alleati. Nonostante l’inclusione di voci autistiche stia migliorando persistono alcuni ostacoli, soprattutto nella ricerca con individui che possono essere descritti come non verbali o quasi non verbali”.
Parlare di autismo sui media
Il 18 febbraio la narrazione raramente riesce ad avvicinarsi a questo tipo di delicatezza e utilità. Si parla di chi era Hans Asperger (fortunatamente un po’ anche di Grunya Sukhareva) e di quali personaggi famosi erano/sono Asperger, a volte confermati da diagnosi formali e altre volte per elucubrazioni retroattive. Tracciare paralleli con celebrità come l’attore Anthony Hopkins – diagnosticato dopo i 70 anni – è un modo per de-stigmatizzare, ma la narrazione non può essere solo questa. Come non può essere solo quello cui ci si riferisce generalmente come inspiration porn: riportare le storie di persone con disabilità come fonte di ispirazione solo o in grossa parte per via della condizione stessa.
Sui giornali l’autismo viene spesso ed erroneamente definito malattia, raccontato tramite elenchi di sintomi e descrizioni de-umanizzanti come: “gli Aspie hanno comportamenti e modi di comunicare inusuali, che possono annoiare o mettere a disagio l’interlocutore”. Immedesimatevi in un autistico e immaginate quanto vi sentireste nel leggere sui giornali una cosa del genere che, in teoria, dovrebbe parlare di voi. E lo fa come se foste “usciti dalla stanza”, dove la stanza è Internet. Un articolo divulgativo non è un manuale diagnostico, nonché dovrebbe essere corretto nei contenuti: ha davvero senso esprimersi così?
Si legge poi che “l’Asperger non isola quanto l’autismo in senso stretto” – molti Asperger avrebbero qualcosa da dire al riguardo, oltre al dubbioso concetto di autismo in senso stretto – e che “la difficoltà a sviluppare e/o mostrare empatia è probabilmente l’aspetto più caratteristico” delle persone autistiche. La scienza ha già mostrato che non è così: l’empatia autistica è diversa e può avere tempi e modalità differenti, ma bisogna smettere di parlare degli autistici come di robot incapaci di mettersi nei panni del prossimo. Ne abbiamo parlato qui.
Parole inclusive e intelligenti
Come parlare di autismo, dunque. La National Autistic Society sottolinea che quando si parla di una persona o di uno specifico gruppo è sempre bene chiedere dettagli sul linguaggio e su come preferiscono ci si riferisca loro. In linea generale, però, fornisce delle linee guida utili non solo per i media, ma per chiunque voglia unirsi alla conversazione e sia consapevole che l’unico modo per farlo positivamente è prestare attenzione alle parole.
Si consiglia ad esempio di non parlare di bambini a sviluppo normale ma di bambini a sviluppo tipico; di non usare l’espressione “persone che vivono/convivono con l’autismo” bensì “persone autistiche/nello spettro” e loro familiari e amici. Ma soprattutto va abbandonata la terminologia vittimistica e patologica: non persone che soffrono per l’autismo né vittime dell’autismo. L’autismo non è una malattia e non ti colpisce né ne si è affetti.
Il linguaggio cambia e si evolve con il tempo. Già nel 2015 una ricerca inglese pubblicata su Autism mostrava che ci si stava muovendo verso uno più positivo e assertivo, “soprattutto nelle comunità autistiche dove l’autismo è visto come parte integrante della persona”, scrive la National Autistic Society. Cosa significa? Che il feedback dei diretti interessati ci dice che dovremmo preferire autistico/a o persona autistica a “con autismo”, perché si tratta di qualcosa che sei, non di qualcosa che hai. Al contempo, rientra nel gaslighting attaccare quegli autistici che preferiscono usare altri modi per raccontare la propria condizione, che non ne sentono la componente identitaria e devono essere liberi di parlarne nel modo che preferiscono.
È il dilemma del linguaggio identity first (autistico) contrapposto a person first (con autismo) che si presenta quando parliamo di disabilità, ma quello dell’autismo è un discorso a parte. Con l’aumento della consapevolezza, sempre più autistici vedono il proprio essere nello spettro come qualcosa che li definisce, che li rende le persone che sono, una parte cruciale della loro identità e non qualcosa dal quale prendere le distanze definendosi una persona che l’autismo lo ha. Dire che sono autistic* è un modo per validare me stess* e chi sono, di accettare e abbracciare la mia diversità.
Il problema di fondo, come raccontato bene anche da Lydia Brown di ASAN (Autistic Self Advocacy Network) è che molti genitori ed educatori vengono da un mondo nel quale il termine autistico aveva un significato esclusivamente negativo, associato solo a stereotipi e disabilità intellettiva. E da quel mondo di vergogna ancora non riusciamo a staccarci, ma non stupisce: basta pensare che oggi, con il Covid-19 e una società profondamente cambiata, ci si vergogna persino a dire che si va dallo psicologo.
Unire, non dividere
Lo studio menzionato aveva coinvolto 3.470 persone tra le quali 502 adulti autistici, 2.207 genitori di autistici (sia bambini che adulti), 1.109 professionisti della salute e 380 amici e parenti di autistici. Ne era emerso che è ancora difficile trovare un termine univoco, ma tutti avevano una percezione positiva di “nello spettro autistico” e “sindrome di Asperger”. Gli adulti autistici prediligevano “autistico” così come “Aspie”, che invece non piaceva alle famiglie. Tra i termini in disuso o percepiti come negativi, “a basso funzionamento”, “autismo classico” e “autismo di Kanner” (dallo psichiatra austriaco Leo Kanner, che negli anni ’40 descrisse l’autismo come autismo precoce infantile o sindrome di Kanner).
Risposte che confermano quanto anticipato: le etichette sul funzionamento possono risultare fuorvianti e voler creare troppe divisioni contribuisce, appunto, a dividere. L’obiettivo, anche nel linguaggio, dovrebbe essere unire, perché l’autismo non è una linea tracciata da “più autistico” a “meno autistico” bensì uno spettro. Ci sono tratti comuni in diversi ambiti – sociale, emotivo, sensoriale – che hanno diverse intensità in diverse persone. Non ci sono due autistici uguali tra loro come non ci sono due neurotipici uguali tra loro.
Concludendo, per citare Temple Grandin, essere autistici è essere “different, not less”. Ed è ora di curare le parole quando scriviamo come giornalisti o autori, ma anche semplicemente come persone che pubblicano contenuti online, per raccontare bene questa diversità. E, se non sappiamo ancora bene come parlarne, di stare in silenzio e ascoltare le voci dei diretti interessati.
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Fotografia: Pixabay
(L’articolo è stato aggiornato nel febbraio 2021)