Autismo, dalla consapevolezza all’accettazione
Tradizionalmente aprile è il mese dedicato a parlare di spettro autistico. Niente iniziative outdoor, quest'anno, ma possiamo usare il tempo per informarci e leggere l'esperienza dei diretti interessati: gli autistici.
La pagina delle Nazioni Unite dedicata alla Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo, World Autism Awareness Day, ora inizia in modo inaspettato: The Transition to Adulthood (la transizione all’età adulta). Inaspettato in senso positivo perché, se ci fate caso, di autismo si parla sempre riferendosi ai bambini o agli adolescenti, molto di rado ai giovani adulti, davvero raramente agli adulti e men che meno agli anziani. Così come le risorse a disposizione e le iniziative: compiuti i 18 anni, o grossomodo al termine delle scuole superiori, la sensazione di molti autistici e delle loro famiglie è quelli di cadere nel vuoto (ricorderete forse le discussioni rispetto alla legge del “Dopo di noi“).
Tuttavia non si smette di aver bisogno di supporto da un giorno all’altro: resta l’autismo, che a volte viene diagnosticato solo quando si è ormai adulti, così come le necessità a esso legate, le comorbilità, l’ipo o iper-sensibilità sensoriale. Ma cessano in molti casi i servizi.
Anche i dati rilasciati in prossimità di aprile, come gli ultimi dei CDC statunitensi appena pubblicati, hanno valutato la prevalenza nei bambini di otto anni: oggi uno su 54 ha una diagnosi di disturbo dello spettro autistico, nel 2018 il dato era uno su 59. A cosa sia dovuto l’aumento non è possibile rispondere in modo univoco perché probabilmente si tratta di una combinazione di fattori, non ultimo la crescente consapevolezza rispetto all’autismo da parte delle famiglie, dei singoli e dei professionisti sanitari, oltre al costante aggiornamento degli strumenti diagnostici (differenti in diverse fasce d’età).
Capire come prosegue la vita autistica e dare qualche numero basandosi su campioni numerosi è molto più difficile. Quelli che abbiamo non sono troppo incoraggianti: secondo la National Autistic Society (dati UK) solo il 16% degli adulti autistici ha un lavoro retribuito a tempo pieno. Si sale al 32% considerando quelli che hanno un qualche tipo di impiego retribuito. Un piccolo studio del 2018 condotto su 169 autistici, età media circa 35 anni, ha mostrato che circa metà viveva con un membro della famiglia, uno su cinque era disoccupato, solo il 5% si era sposato.
Come per tutte le persone, anche per gli autistici la scelta di un lavoro dovrebbe poter partire dai punti di forza: magari la passione immersiva per un argomento, la capacità di gestire grandi moli di dati, l’attenzione sibillina per i dettagli, un’organizzazione impeccabile. O qualsiasi altra capacità che non viene magari considerata “tipicamente autistica” ma è presente, proprio perché ogni persona è diversa e ha le sue forze e debolezze. Purtroppo invece è sulle difficoltà che ci si concentra, a partire dal colloquio di lavoro dove caratteristiche che – generalizzo – sappiamo accomunare molti autistici (come la a volte disarmante onestà, un modo di pensare più rigido di quanto ci si aspetti o la difficoltà, per alcuni, di stabilire e/o mantenere un contatto visivo…) rischiano di diventare subito elementi di scrematura.
Cosa va storto dunque con tutta questa “consapevolezza” sull’autismo che dovremmo guadagnare in aprile come società? Perché diventare più consapevoli quando potremmo invece parlare e chiedere accettazione, accettare che una – oggi neanche così piccola – minoranza di persone è neurodiversa e quella diversità non è un deficit ma, appunto, una differenza?
Ieri consapevolezza, oggi l’accettazione
La consapevolezza in genere c’è, perché difficilmente troverete qualcuno non consapevole che l’autismo esiste e – almeno a grandi linee – di cosa si tratta. Spesso però sono idee stereotipate o estremizzate derivate da personaggi di film e serie tv (ne ho scritto qui) oppure antiquate, alle volte anche irrispettose nei confronti degli autistici che di rado vengono coinvolti attivamente nel raccontarsi. Di alcuni stereotipi ho già parlato, ad esempio: gli autistici non sono in grado di provare empatia per il prossimo (falso), l’autismo è un disturbo maschile e ci sono pochissime bambine/donne autistiche (falso).
Eppure basterebbe poco per approfondire la questione, ovvero chiedere a chi l’autismo lo vive e non solo a chi lo studia o lo conosce come “spettatore” esterno. Per questo è sempre più importante la self-advocacy e il coinvolgimento di autistici nella ricerca scientifica, non solo come soggetti ma valorizzando il lavoro degli accademici nello spettro. Aprile vuole essere un mese dedicato a questo. Ad esempio: se usate Twitter, e avete una domanda che riguarda l’autismo (per voi o una persona a voi vicina) che vorreste porre alla comunità autistica potete usare #AskingAutistics. Un hashtag nato in parallelo ad #ActuallyAutistic, che andrebbe usato appunto solo da chi è autistico.
Un buon esempio in questa direzione è PARC, Participatory Autism Research Collective, un progetto nato per supportare gli autistici nel lavoro entro l’accademia e creare una struttura dove gli autistici tutti possano influenzare un cambiamento sociale. In un articolo open-access appena pubblicato gli autori raccontano l’evoluzione del progetto e i traguardi raggiunti rispetto agli obiettivi di partenza: intervenire rispetto al senso di isolamento di molti scienziati autistici, promuovere il finanziamento e la diffusione della loro ricerca, promuovere metodi partecipativi e proporre “un punto di vista critico rispetto alla ricerca scientifica sull’autismo che non porta empowerment” ai diretti interessati.
Autismo da dentro
Fatta la dovuta premessa che non ci sono due autistici uguali tra loro, che quando ne si parla tocca generalizzare un po’, e che probabilmente molti non si riconoscano in tutte le caratteristiche prese in considerazione anche in fase di diagnosi (dalle difficoltà comunicative a quelle del linguaggio fino a stereotipie e interessi ritretti) ma solo in alcune, sono proprio gli autistici cosiddetti “ad alto funzionamento” l’interlocutore più adatto anche per le famiglie con figli autistici ancora piccoli. Sanno cosa significa essere autistici in un mondo neurotipico e cosa significa crescere in ambienti che, uno dopo l’altro, sono “progettati” per la maggioranza neurotipica: la scuola, poi l’università, poi lo spazio di lavoro. Possono dare insight che è impossibile ottenere altrove.
Non a caso tra le critiche più frequentemente rivolte all’associazione Autism Speaks – forse la più famosa al mondo a occuparsi di autismo e al contempo una dalla quale molti autistici non si sentono affatto rappresentati – così come ad altre con approccio simile, c’è proprio il mancato coinvolgimento degli autistici in decisioni, comunicazione, destinazione dei fondi raccolti, iniziative, scelta dei simboli. L’obiettivo sullo sfondo di questa associazion, e un altro degli elementi fortemente criticati, è il cercare una cura. Ma sappiamo che autistici si nasce e non si diventa né si é affetti (né ancora si è, come famiglia, touched by, un’altra delle strane opzioni che si incontrano). Una cura non c’è e tanti tra i molti adulti che possono e vogliono parlare per sé vi diranno che se ci fosse non la vorrebbero, perché l’autismo è parte della loro identità.
È aprile, parliamone!
Mentre la ricerca scientifica continua a indagare le peculiarità dello spettro, come questo recente studio condotto su modelli animali rispetto alla sensorialità autistica, vale la pena di approfittare dell’attenzione di aprile per diffondere informazioni corrette e provare a colmare il gap che ancora spesso c’è tra le conoscenze raggiunte in accademia e l’effettivo impatto sulla vita delle persone autistiche. Nell’aprile 2020 non sarà possibile farlo come da programmi, nessuna iniziativa dal vivo, ma tutto il tempo che trascorriamo online in questo periodo ci fornisce un’ottima occasione per prenderci del tempo e informarci bene.
Anche perché di “autismo ai tempi del Covid-19” abbiamo già sentito parlare nei giorni passati, quando a molti autistici (adulti e bambini) e ai loro accompagnatori si è prospettata la discutibile opzione di dover ricorrere a un segnale di riconoscimento, un accessorio blu di qualche tipo, come un nastro, per poter uscire di casa – cosa che erano legittimati a fare – ed evitare di sentirsi urlare insulti dai balconi.
E continueremo a sentirne parlare per motivi logistici: l’isolamento da Covid-19 per molte persone nello spettro si può trasformare in mancanza di routine, ansia estrema rispetto alla pandemia e al contagio, magari lontananza da un sistema di supporto quotidiano fatto da famiglia, amici e insegnanti. Ma per poter uscire e alleviare un accumulo di tensione e sovraccarichi che rischiano di esplodere (magari in un meltdown, in iperattività, in attacchi d’ansia) in alcune regioni non è sufficiente la documentazione diagnostica della quale si è probabilmente già in possesso, ma a oggi è necessario ottenere un’ulteriore certificazione redatta dal professionista di salute mentale di riferimento. Con il rischio, dopo ulteriori stress, attesa e burocrazia, di vedersi comunque urlare dai balconi se, come si sentono dire tanti adulti, “non sembri autistico”.
Light it up blue?
Simboli: viene proprio dall’organizzazione Autism Speaks la popolarità del pezzo di puzzle come simbolo (proposto per la prima volta negli anni ‘60) così come la scelta del colore blu; è così che in aprile, come nella maggior parte dell’anno, allo spettro autistico sarà associata un’immagine nella quale molti non si riconoscono e che anzi, respingono. Essere autistico non vuol dire essere senza un pezzo, non incastrarsi con il resto del puzzle, non vuol dire essere mancante: vuol dire essere diverso.
Cosa usare, dunque, per mandare finalmente in pensione i pezzi di puzzle? Tra i simboli apprezzati c’è soprattutto il simbolo dell’infinito in tutti i colori dello spettro a simboleggiare, appunto, l’enorme diversità delle persone nello spettro autistico. La neurodiversità, in tutte le sue sfaccettature. Ma anche il colore rosso, di qui l’hashtag #redinstead proposto per abbandonare #lightitupblue e, per il simbolo dell’infinito, quello dorato. Tra i motivi del colore, il simbolo chimico dell’oro: Au(tism).
L’invito, sullo sfondo, è di puntare all’accettazione dell’autismo e non alla consapevolezza. Quella l’abbiamo raggiunta ed è arrivato il momento di fare un passo in più.
In questi giorni di isolamento possiamo, dicevamo, approfittarne per leggere un po’ di punti di vista in prima persona. Racconti, libri, divulgazione, video prodotti da autistici adulti, hashtag che raccolgono esperienze dirette. Per chi usa Twitter ho creato una lista di profili interessanti da seguire e che aggiorno; qui trovate altri spunti elencato in ordine alfabetico (alcuni sono presenti anche su Twitter, e li trovate nella lista). Segnalatemi nei commenti se credete manchino voci importanti:
IN ITALIANO
Autie Wiki – blog
Aspie Airlines – blog, segnalo questo articolo su cos’è un meltdown autistico
Bradipi in Antartide – pagina Facebook
Fabrizio Acanfora – blog – la mia recensione del suo libro eccentrico
Gruppo Asperger Veneto – pagina Facebook
Per noi autistici – blog
IN INGLESE
Agony Autie – pagina Facebook – YT, segnalo un video sulla stimolazione sensoriale (stimming)
ASAN, Autistic Self Advocacy Network – sito web
Neuroclastic – blog
Neurodivergent Rebel – blog
Steve Asbell – sito web
the curly hair project – sito web
Theresa Scovil-Hertwig – pagina Facebook – Instagram
Leggi anche: Asperger, l’importanza di una diagnosi anche da adulti