Attraverso lo schermo: l’autismo al cinema
Di film sull'autismo ce ne sono tanti, ma spesso si cade in pietismo e stereotipi. Il nuovo libro del medico Maurizio Bonati aiuta a districarsi in un ragionato viaggio cinematografico.
Quando hai conosciuto un autistico, hai conosciuto un autistico. È forse il modo più efficace per spiegare, in poche parole, come ogni persona nello spettro sia diversa da tutte le altre: uno spettro, appunto. Proprio per questo è complicato padroneggiare un linguaggio adatto, riuscire a includere l’intero spettro quando si parla di ricerca scientifica, di servizi, di quotidianità. Un aiuto arriva dalla rappresentazione dell’autismo al cinema, che per molte famiglie è un punto di partenza in cui riconoscere il proprio figlio/a o un modo per spiegarne il modo di essere con semplicità di fronte a uno specialista.
Proprio da qui, dall’incontro professionale e personale con le famiglie di bambini autistici e con le loro storie di vita, nasce il libro Attraverso lo schermo. Cinema e autismo in età evolutiva (Il Pensiero Scientifico Editore 2019, 120 pagine, 14€) del medico Maurizio Bonati, Responsabile del Dipartimento di Salute Pubblica e del Laboratorio per la Salute Materno Infantile all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano.
Proprio come nel film…!
Per rendere più immediata, credibile ed esplicita la descrizione del percorso diagnostico e terapeutico, delle difficoltà e dello stigma incontrati, scrive Bonati, non è raro che i genitori si servano proprio del mondo del cinema. “Proprio come nel film”, “proprio come nel documentario …, lo ha visto?”. Film, documentari e serie tv sono un’efficace forma di narrazione, al punto che in molti casi sono entrati a far parte della didattica psichiatrica. Ma anche un modo per sentirsi meno soli, per riconoscersi in situazioni, momenti positivi e difficoltà. Uno strumento prezioso, al servizio anche dei rappresentati? A volte: quando la salute e i disturbi, nello specifico caso l’autismo, vengono trattati con rigore e senza cadere nel pietismo, nella banalizzazione, nella stigmatizzazione, negli stereotipi portati avanti da decenni come se le nostre conoscenze non fossero radicalmente cambiate.
Il libro è una vera e propria rassegna della produzione cinematografica mondiale intorno ai disturbi dello spettro autistico, un’ottima risorsa di fronte all’esigenza di molti: capire meglio l’autismo, da autistico appena diagnosticato, da persona che sospetta di essere nello spettro, da familiare preoccupato o solo interessato a capire meglio. Il rischio dietro l’angolo quando ci si avvicina a un tema così alla larga (“Adesso cerco un po’ di film sull’autismo!”) è quello di dare troppo peso a pellicole magari poco rigorose o rappresentative dello spettro ma che hanno avuto successo per motivi diversi – la performance di un attore/ attrice, la storia in sé -, o ancora non trovare la visione giusta perché reperibile solo in rassegne cinematografiche tematiche o festival dedicati.
La ricerca certosina di Bonati, che parte dagli anni ’60, aiuta lo spettatore a districarsi e a decidere bene come impiegare il proprio tempo davanti allo schermo. Le sezioni del libro distinguono tra film, serie tv e documentari, ma ci aiutano anche a scegliere narrazioni specifiche: autismo che incontra amore e relazioni, il ruolo degli animali, lo sport.
Un viaggio cinematografico nell’autismo
Per molti dei film che incontriamo i limiti stanno non solo nel tipo di narrazione e tono scelti, ma nelle effettive conoscenze scientifiche sull’autismo che erano a disposizione al tempo. Si passa così da Il ragazzo che sapeva volare (1986) dove alcuni eccessi e distorsioni vengono bilanciati da un messaggio di speranza e volontà al notevole Fly Away (2011), che secondo Bonati guarda e mostra il mondo dell’autismo in modo consono, seppure con poco budget a disposizione in quanto produzione indipendente. E ancora ci si imbatte in pellicole inaspettate come Piovono polpette (2009) dove il protagonista, lo strano scienziato Flint Lockwood – che nel cartone non viene presentato come autistico – è stato riconosciuto come tale da tanti spettatori. Altre dove, come nel famoso La solitudine dei numeri primi (2010), secondo Bonati l’autismo diventa un elemento pretestuoso e non davvero necessario alla narrazione.
Poi arrivano El abuelo (2012), dove la sceneggiatura di Stephen Metcalfe – sceneggiatore di Pretty Woman e padre di un ragazzo autistico – fa la differenza per un film davvero da vedere, e le più recenti serie tv Atypical (2017) sul giovane autistico Sam e The Good Doctor (2017) dove il protagonista è il medico savant Shaun Murphy; qui non si cade nella banalizzazione, entrambe valgono la pena e non si cede all’errore scientifico, ma si poteva certo osare un po’ di più. Quello della sindrome del savant è un argomento che troviamo spesso nel cinema sull’autismo, a partire dal film probabilmente più noto in assoluto, Rain Man (1988). Si tratta di un frammento che, vicino a tanti altri, compone lo spettro, ma la grande attenzione ricevuta dal grande schermo – come dai media – ha fatto sì che si diffondesse l’idea errata che tutti gli autistici sono geni e tutti i geni sono autistici.
E ancora il documentario italiano Be Kind (2018) dove il 12enne Nino, autistico, fa un viaggio attraverso l’Italia all’insegna della diversità (non solo neuro-) e in opposizione – perché non mancano, nella rassegna, i no, troviamo Recovered: journeys through the autism spectrum and back (2008), prodotto dal Center for Autism Disorders Inc., che Bonati segnala in negativo come pura propaganda commerciale che promuove false speranze rispetto a una cura per l’autismo attraverso la storia di quattro ragazzi. A seguire, sempre in negativo, Cries for heart (1994, in italiano Il silenzio del testimone) dove si promuove la comunicazione facilitata, un approccio impiegato nell’autismo e ritenuto dagli esperti privo di evidenze scientifiche.
Tra una riflessione e l’altra
Tra una “recensione” e l’altra – recensioni che l’autore chiama in realtà considerazioni/ riflessioni, proprio per distaccarsi dalla critica cinematografica, che non è l’obiettivo del libro – troviamo anche forti considerazioni su quella che è la moderna situazione del sistema di cura per la salute mentale, sempre più inadeguato, scrive l’autore, e fortemente diverso sul nostro territorio di regione in regione. Se i valori, gli ideali e i principi della Legge 180 sono ancora validi, sottolinea Bonati, non sono stati ri-contestualizzati nei termini di prassi e servizi se non con l’abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
Il percorso di deistituzionalizzazione in particolare è trascurato, quel percorso che – costantemente monitorato e valutato – dovrebbe portare la persona dall’ospedale alla comunità più adatta ad accoglierla, mentre la “dopo di noi” (legge 112/2016) è ancora in gran parte non applicata sul territorio nazionale, lasciando le famiglie nell’ansia di cosa sarà dei loro figli autistici quando loro non ci saranno più.
Se una postilla si può fare, a un libro che ci incoraggia a comprendere lo spettro nella sua complessità lasciando alle spalle stereotipi e narrazioni banali – ma anche a volte offensive -, è che si poteva dedicare uno spazio a una parte che ancora passa in sordina: le donne autistiche. Fino a non troppo tempo fa si pensava che il rapporto maschi/ femmine fosse di circa 10:1, ma le ricerche epidemiologiche oggi parlano, come riportato anche da Bonati, di un 4:1. Nuovi studi, come questa review del 2017, sostengono che è più vicina al 3:1 e che c’è un importante bias di genere che porta molte bambine, ragazze e donne a non ricevere la diagnosi.
Psicologi come Tony Attwood, considerato il massimo esperto mondiale sulla sindrome di Asperger (inclusa ora dal DSM V nello spettro dell’autismo e non più indicata come sindrome a sé), suggeriscono che gli stessi criteri per la diagnosi si siano da sempre basati su modelli in gran parte maschili – a partire dai “piccoli professori” di Hans Asperger stesso, i bambini autistici della sua clinica di Vienna – facendo così passare tra le maglie l’autismo femminile, che si manifesta in modo anche molto differente e risulta così più difficile da diagnosticare. Per chi volesse approfondire, basandosi sulla sua esperienza clinica qui Attwood propone alcune spiegazioni plausibili che andrebbero esplorate con studi su larga scala.
Tra le variegate citazioni che ci introducono ai vari capitoli e sezioni del libro di Bonati troviamo un ampio ventaglio che include Franco Basaglia, Elena Bonham Carter (che parla del marito, il regista Tim Burton, autistico) ma anche Rudy Simone, autrice di diversi libri sull’Asperger , lei stessa autistica, che ha contribuito alla presa di consapevolezza di molte donne riconosciutesi nello spettro, raccontato specificamente al femminile nella sua diversità. In attesa di linee guida per la diagnosi che ne tengano conto e di studi su larga scala che ci raccontino l’altra metà dello spettro autistico, perciò, una menzione in questo senso poteva trovare spazio tra le pagine.
Il libro di Bonati è un’ottima aggiunta alle librerie di chi ha scelto (anche) la narrazione del cinema per capire meglio l’autismo e vuole un aiuto consapevole e documentato per orientarsi tra decenni di pellicole. Tenendosi alla larga da inutili eccessi di pietismo e stereotipi che, invece di raccontare la neurodiversità, la sviliscono e appiattiscono.
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