Duecento (e più) anni di Antartide
Il 1820 è l'anno che per tradizione viene associato alla scoperta dell'Antartide, 200 anni dopo riscopriamo la struttura di questo gigante bianco.
A differenza della paura del buio, l’orrore del bianco è una fobia meno diffusa ma ben radicata a livello inconscio. Sebbene nella simbologia occidentale esso venga associato a virtù positive come purezza e castità, la sua natura eccezionale – sintesi eppure assenza di colore – rappresenta l’anomalia. Nonché il presagio di malattia e di morte. Bianca è la pelle dell’albino Silas, principale antagonista de “Il codice da Vinci” così come sono bianche la balena di Melville e alcune delle creature mostruose che popolano i romanzi di Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft. E nell’epoca del cambiamento climatico, bianca è la principale incognita dell’umanità: qualora la calotta glaciale dell’Antartide dovesse fondere completamente, il livello del mare si innalzerebbe di 58 metri. Sebbene non vi siano certezze sul primo avvistamento, la scoperta del continente bianco viene tradizionalmente posta nel 1820, quando una spedizione della marina imperiale russa guidata da Bellinghausen giunse a circa 20 miglia nautiche dalle sue coste. Per celebrare la ricorrenza, nelle scorse settimane la rivista Science ha pubblicato un numero speciale dedicato all’Antartide, ricostruendo genesi e anatomia della sua calotta.
La verde Antartide
Cento milioni di anni fa l’Antartide era una terra verdeggiante, caratterizzata da un clima mite simile a quello dell’odierna Nuova Zelanda. Tuttavia, il suo destino iniziava già a delinearsi: lo scivolamento verso il polo e il disgregamento della Gondwana – il supercontinente meridionale – finirono per distanziarla progressivamente da America meridionale, Africa, India e Australia. La separazione si completò 34 milioni di anni fa con l’apertura del canale di Drake e del passaggio della Tasmania. L’instaurazione della Corrente circumpolare antartica isolò il continente dal resto della circolazione oceanica. Sopra la terraferma, temperatura e concentrazione di anidride carbonica iniziarono a calare drasticamente, favorendo l’espansione dei ghiacciai che occupavano le cime dei monti più alti.
Una glaciazione a due velocità
La morfologia del continente, formato da due grandi regioni geologicamente distinte, influenzò significativamente la genesi della glaciazione. Nell’Antartide orientale, la porzione più antica e stabile del continente, il processo si innescò rapidamente: i ghiacciai dei monti Transantartici e Gamburtsev, così come le regioni a maggiore altitudine delle Terre della Regina Maud, furono le prime a venire ricoperte dalla calotta. Tuttavia, dovettero trascorrere 20 milioni di anni prima che il ghiaccio ghermisse l’Antartide occidentale, un complesso arcipelago di isole e vulcani che comprende la Penisola Antartica. Buona parte di questa regione si trova al di sotto del livello del mare: affinché si potesse instaurare una calotta glaciale, il clima del pianeta avrebbe dovuto raffreddarsi significativamente, cosa che avvenne solamente nel Miocene medio, circa 14 milioni di anni fa.
Anatomia della calotta
La calotta glaciale dell’Antartide orientale è la più estesa del pianeta, raggiungendo in alcuni punti uno spessore di oltre 4.600 metri. L’apice della calotta è situato presso la Dome A, circa 4.200 metri sopra i monti Gamburtsev, mentre il punto più basso si trova nel canyon sotto il ghiacciaio Denman, alla straordinaria profondità di 3.500 metri sotto il livello del mare. La struttura della calotta viene generalmente descritta da tre componenti. La prima è rappresentata dal ghiaccio che poggia direttamente sul suolo. Esso raggiunge una velocità di scorrimento molto lenta, circa 1 metro per anno, e costituisce la maggioranza della massa. Flussi glaciali e ghiacciai di sbocco sono ben più rapidi. Essi convogliano il ghiaccio verso l’oceano a una velocità di circa 4 chilometri per anno. Infine vi sono le piattaforme di ghiaccio, sorta di prolungamento dei precedenti elementi nell’oceano.
Il rebus dell’Antartide occidentale
Nel loro insieme, le piattaforme galleggianti ricoprono un’area di oltre 1,5 milioni di chilometri quadrati. Per quanto non incidano direttamente sull’innalzamento del livello del mare, esse sono fondamentali nel rallentare l’avanzata dei flussi glaciali. Soprattutto nell’Antartide occidentale, la cui calotta non giace sulla terraferma ma sul fondale marino ed è dunque più vulnerabile al cambiamento climatico. Di recente, il cosiddetto “ventre molle” del continente ha mostrato evidenti segni di cedimento, confermati da tre diverse analisi basate su dati satellitari e meteorologici: perdita di massa, appiattimento dei rilievi e velocità di scorrimento del ghiaccio. Per quanto riguarda le prime due misure, i settori più colpiti negli ultimi 20 anni sono stati quelli che si affacciano sul mare di Amundsen e sul mare di Bellingshausen. I maggiori cambiamenti nella velocità di flusso sono stati osservati nella Penisola Antartica. Il progressivo collasso della Piattaforma Larsen ha accelerato lo scorrimento dei ghiacciai che la alimentavano. Mentre il flusso glaciale Pine Island, posto all’attaccatura della Penisola con il continente, ha raddoppiato la velocità, arretrando il proprio fronte di oltre 30 chilometri tra il 1990 e il 2010.
Un continente dinamico
In duecento anni, le nostre conoscenze sono cambiate drasticamente. E di pari passo è cambiata la concezione dell’Antartide: non più uno stagnante ammasso di ghiaccio ma un continente in piena evoluzione nonché ago della bilancia nella partita del cambiamento climatico. L’Antartide orientale per ora non sembra risentire significativamente della febbre planetaria. E questa rimane una splendida notizia dato che è lì che riposa il vero gigante addormentato, quello che dobbiamo evitare in tutti i modi di risvegliare. Tuttavia, anche la fusione della sola Antartide occidentale sarebbe sufficiente per ridisegnare le coste del pianeta. Saremo in grado di preservarla? A questa domanda le autrici dello studio non hanno trovato riposta.
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