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Biomining: estrarre metalli con i microrganismi, anche nello spazio

Il biomining è un processo che utilizza microrganismi per estrarre metalli dalla roccia o dai rifiuti minerari. Questa tecnica, già in uso sulla Terra, un domani potrebbe essere applicata regolarmente anche nello spazio.

L’astronauta Luca Parmitano installa BioRock. Fotografia: ESA

In natura, i minerali preziosi sono comunemente legati ad altri materiali solidi. I processi per ottenerli sono abbastanza complicati e a grande impatto ambientale. Il biomining (o biominazione) è una tecnologia versatile e biologica che attualmente viene impiegata a complemento dell’industria mineraria tradizionale.

Sulla Terra, i microrganismi si trovano ovunque e svolgono un ruolo chiave in innumerevoli processi naturali. Ma costituiscono anche un importante “strumento di lavoro” in molte attività antropiche: dalla decontaminazione dei suoli inquinati (biorisanamento) ai processi produttivi, nell’industria farmaceutica fino a quella alimentare e, più in generale, nella vasta area della biotecnologia. La biominazione è un’altra applicazione che utilizza i microorganismi per abbattere rocce e fornire sostanze nutritive, in cambio di minerali preziosi. Un modo ecologico ed efficiente dal punto di vista energetico per estrarre elementi utili.
Viene utilizzata più frequentemente quando la percentuale del metallo presente nella roccia è bassa, o per estrarre i metalli rimasti negli scarti dell’estrazione convenzionale.

In un futuro non troppo lontano, il biomining potrà essere utilizzato su altri corpi planetari. Gli esperimenti condotti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) hanno dimostrato che i microrganismi provenienti dagli ambienti estremi della Terra possono filtrare una grande varietà di minerali e metalli dalle rocce anche se esposti al freddo, alle radiazioni e al vuoto dello spazio.

Storia ed evoluzione

Tutti gli organismi viventi hanno bisogno di metalli per svolgere reazioni enzimatiche di base. Gli umani li ottengono dalle tracce presenti nel cibo. I microrganismi, analogamente, li ottengono dai minerali nel loro ambiente naturale. La biominazione sfrutta queste peculiarità.

La scoperta del biomining risale al 1951, quando i due batteriologi americani Kenneth Temple e Arthur Russell isolarono l’Acidithiobacillus ferrooxidans, un organismo che prospera in ambienti ricchi di ferro, rame e magnesio. Questo batterio ottiene la sua energia sia dall’ossidazione dei composti ridotti dello zolfo (batterio solfossidante) che del ferro ferroso (batterio ferrossidante). Tali caratteristiche lo rendono adatto alle tecniche di lisciviazione da minerali di solfuro per la dissoluzione di metalli quali rame, uranio, nichel e oro. La sua scoperta è stata di estrema importanza per lo sviluppo delle tecniche moderne.

La maggior parte delle attuali operazioni di biomining vengono utilizzate per rilasciare rame, uranio e nichel occlusi nei solfuri minerali. Mentre per altri preziosi, come l’oro, il processo microbico non scioglie direttamente il metallo ma lo rende più accessibile alle tecniche minerarie tradizionali, rimuovendo il materiale circostante. Il primo metodo, in cui il metallo viene sciolto dalle rocce portatrici è chiamato bioleaching; il secondo, invece, è detto bioossidazione. Entrambe i processi comportano reazioni microbiche che possono verificarsi ovunque coesistano microbi, rocce e nutrienti.

La biominazione controllata viene eseguita all’interno di grandi serbatoi chiusi (bioreattori). Questi dispositivi generalmente contengono acqua, microrganismi (batteri, archeobatteri o funghi), materiale minerale e una fonte di energia per microorganismi. Quest’ultima, come abbiamo visto, può essere ricavata naturalmente da fonti inorganiche, tramite l’ossidazione di zolfo e ferro; mentre, in altri casi, deve essere integrata artificialmente. Ad esempio, i minerali dai quali vengono estratti gli elementi delle terre rare (REE), ampiamente impiegate nelle tecnologie attuali, non contengono una fonte di energia utilizzabile e, pertanto, il processo richiede l’aggiunta di carbonio organico e zuccheri per consentire ai microrganismi di crescere.

Il biomining nello spazio

La biominazione è così versatile che potrà essere utilizzata su altri corpi planetari.

La necessità di accedere alle cosiddette risorse in situ (ISRU, In Situ Resource Utilization) è uno dei punti chiave per la realizzazione dei prossimi programmi spaziali. La NASA con Artemis intende riportare l’uomo sulla Luna e stabilire una presenza costante sul nostro satellite; la Cina vuole costruire una stazione di ricerca al polo sud lunare; Elon Musk, miliardario americano, fondatore e CEO della SpaceX, vuole inviare astronauti su Marte entro il 2026 e stabilire un avamposto permanente sul Pianeta Rosso. Oltre alla Luna e a Marte, anche gli asteroidi potrebbero diventare una fonte importante di materie prime e mete di una nuova “corsa all’oro”.

La NASA sta pianificando una missione verso Psyche per il 2022, uno degli asteroidi più grandi della fascia principale situata tra le orbite di Marte e Giove. L’esatta composizione di questa roccia spaziale ancora non è nota ma si ritiene che sia costituita da ferro e nichel, come il nucleo metallico di un pianeta primordiale. Tuttavia, già si fantastica sul suo potenziale valore economico e qualcuno ha anche fornito stime da capogiro, ipotizzando che un pezzo di ferro delle sue dimensioni possa valere circa 10.000 quadrilioni di dollari, più dell’intera economia mondiale.

Anche se per ora non disponiamo delle tecnologie necessarie per sfruttare un giacimento così lontano, i ricercatori hanno iniziato a mettere alla prova il biomining in condizioni di microgravità sulla Stazione Spaziale Internazionale.

L’esperimento BioAsteroid, iniziativa dell’Università di Edimburgo e Kayser Italia, gestito dall’ESA (Agenzia Spaziale Europea) è partito a bordo della 21a missione di rifornimento SpaceX, studia il biomining in microgravità. Durante l’indagine, della durata di 19 giorni, microbi e funghi interagiranno con i frammenti di una condrite di 4,5 miliardi di anni ritrovata in Marocco. Ciascuna delle 12 camere (bioreattori), grandi quanto una scatola di fiammiferi, include circa 1 grammo di asteroide e 5 millilitri di liquido contenente circa 1-5 miliardi di microbi, inviati nello spazio per osservare la loro capacità di estrarre elementi utili dal substrato roccioso. Una precedente indagine, condotta nel 2019, BioRock, aveva già esaminato come la microgravità influenza i processi coinvolti nella biominazione.

Lo studio precedente ha mostrato, con grande sorpresa, che la microgravità, nota per alterare processi fisici di base come la convezione e la miscelazione dei liquidi, non ha avuto effetti dannosi sulla biominazione. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Nature nel 2020. «I microbi sono stati in grado di biominare allo stesso modo in diverse condizioni di gravità. Abbiamo dimostrato con successo l’estrazione di elementi delle terre rare dal basalto, un costituente della superficie lunare e marziana», aveva dichiarato Charles Cockell, ricercatore BioAsteroid e professore presso il Centre for Astrobiology del Regno Unito dell’Università di Edimburgo.

«I microbi sono molto bravi a fare queste cose, perché estraggono elementi da tre miliardi e mezzo di anni, molto prima che [sulla Terra] arrivassero gli esseri umani». Il passo successivo con BioAsteroid «è cercare di capire come i microbi interagiscono con il materiale degli asteroidi in condizioni di microgravità e se possono essere usati per accelerare o catalizzare la degradazione del materiale per rilasciare elementi utili», ha aggiunto.

Protezione planetaria

Sulla Terra, le operazioni di biomining utilizzano comunità microbiche già presenti in natura. Pertanto, i rischi derivati dal loro possibile rilascio nell’ambiente sono considerati trascurabili. L’impatto maggiore è legato alla fuoriuscita e al trattamento della soluzione acida e ricca di metalli creata dai microrganismi stessi, che è simile al drenaggio acido delle miniere abbandonate. In ogni caso, il processo è decisamente meno inquinante rispetto all’industria mineraria tradizionale dove vengono utilizzati prodotti chimici aggressivi.

Il rischio viene facilmente gestito assicurando la biominazione in condizioni controllate, con adeguati protocolli di sigillatura e gestione dei rifiuti.

Nello spazio, invece, il crescente interesse per la Luna e altri corpi celesti da parte dei governi e delle compagnie private richiede sicuramente considerazioni più ampie. L’aumento delle attività spaziali potrebbe replicare il problema dei detriti nell’orbita terrestre attorno alla Luna, a Marte o altrove; la polvere lunare, sollevata dalle attività sulla superficie, potrebbe creare un nuovo problema ambientale extraterrestre; le operazioni minerarie trasformeranno ambienti finora incontaminati. Cosa succederà quando entreranno in attività le prime miniere spaziali?

Nicol Caplin, astrobiologa dell’ESA, ha condiviso con OggiScienza alcune considerazioni via e-mail. «Dovrebbe essere implementato un piano di gestione per garantire che vengano evitate, per quanto possibile, le “discariche” sulla Luna / Marte». Anche nel caso dell’ecosostenibile biomining e le linee guida di Protezione Planetaria rischiano di diventare insufficienti ed inefficaci nell’arco di pochi anni. Queste politiche, promosse dalla NASA in primis, sono diventante sempre più restrittive nel corso del tempo. L’obiettivo è diventato bivalente: ridurre al minimo le probabilità che l’esplorazione robotica o umana trasporti su altri mondi, come Marte, microbi terrestri (forward contamination); ridurre il rischio che organismi alieni vengano liberati sul nostro pianeta quando le missioni riportano dei campioni sulla Terra (back contamination).

La politica di protezione planetaria è iniziata con il lavoro di un’organizzazione scientifica internazionale chiamata Committee on Space Research (COSPAR) nel lontano 1958 e, da allora, ha subito diverse revisione, alcune recenti, per un adeguamento con i prossimi programmi spaziali che prevedono non solo l’intensificarsi delle missioni robotiche di tutti i tipi (lande, rover , orbiter, CubeSat…) ma anche astronauti che torneranno a mettere piede su altri mondi nel prossimo futuro.

Seppur gli oggetti del nostro Sistema Solare siano stati classificati in base al loro interesse scientifico ed in base alla possibilità, più o meno remota, per cui microrganismi terrestri possano proliferare in un ambiente extraterrestre, l’idea di intraprendere attività di biominazione in giro per lo spazio sembra uno scenario da film di fantascienza.

«Il discorso sulla protezione planetari è un tema caldo ed è molto rilevante per le attività di esplorazione e sfruttamento delle risorse. Esistono già linee guida su ciò che può e non può essere introdotto in vari luoghi e (mi aspetto) che, alla fine, vengano tradotte in legge», ha detto Caplin. «La Luna non ha regole rigide sulla contaminazione come altre destinazioni: per esempio, Marte. Questo perché la Luna non è di interesse scientifico per le missioni di rilevamento della vita, mentre certamente lo è Marte. Pertanto, qualsiasi introduzione di materiale biologico dovrebbe essere contenuta in modo robusto e non interferire con gli sforzi nella ricerca della vita in luoghi lontani dalla Terra.»

Ogni contaminazione terrestre di luoghi extraterrestri non solo modificherà quell’ambiente con conseguenze che probabilmente non siamo ancora in grado di prevedere ma precluderà ogni tipo di scienza e di scoperte. D’altra parte la pandemia di coronavirus che continua a girare il mondo da più di un anno ci dovrebbe aver insegnato qualcosa: tenere a bada il micromondo è un’impresa ardua!

Su questo tema, abbiamo provato a contattare alcuni addetti ai lavori: ci avrebbe fatto piacere ricevere anche un loro feedback, raccogliere le loro idee e commenti.


Leggi anche: Quanto siamo lontani dai viaggi nel tempo?

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagini: ESA

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Elisabetta Bonora
Romana, ligure di adozione. Nella vita professionale mi occupo di web, marketing & comunicazione a 360 gradi. Nel tempo libero sono una incontenibile space enthusiast, science blogger ed images processor, appassionata di astronomia, spazio, fisica e tecnologia, affascinata fin da bambina dal passato e dal futuro. Dal 2012 gestisco il sito web aliveuniverse.today, dal 2014 collaboro con diverse riviste del settore e nel 2019 è uscito il mio primo libro "Con la Cassini-Huygens nel sistema di Saturno". Amo le missioni robotiche.... per esplorare nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare laddove nessun uomo è mai giunto prima! Ovviamente, sono una fan di Star Trek!