Autismo, è ora di cambiare approccio nella ricerca
Nel 2017 un gruppo di consulenza, che comprendeva scienziati e membri della comunità autistica, ha chiesto di ridistribuire i fondi di ricerca dando la priorità a trattamenti e supporto delle persone autistiche durante tutta la vita. Ma a oggi poco è cambiato, se non l'approccio di singoli gruppi di ricerca.
Nel 2017 il gruppo consultivo Interagency Autism Coordinating Committee, composto da scienziati che lavorano nell’ambito dell’autismo e membri della comunità autistica, ha chiesto di rivedere le priorità di ricerca scientifica in questo campo e – di conseguenza – il modo in cui vengono destinati i fondi tramite assegni di ricerca affinché rispondano alle necessità espresse dalla comunità di riferimento. Per dare un’idea, il budget per la ricerca sull’autismo del solo National Institutes of Health (NIH) nel 2019 sfiorava i 300 milioni di dollari.
In cima alla lista delle priorità il comitato aveva messo i trattamenti e gli interventi terapeutici, seguiti dai servizi basati su evidenze e dalle lifespan issues. Con queste ultime si intende tutto ciò che succederà nel corso della vita di una persona autistica, che si tratti di aumentare il livello di indipendenza, di intraprendere un percorso di studi e trovare poi un lavoro, di gestire le comorbilità (come ansia e depressione) e molto altro. Aspetti cruciali ma spesso dimenticati perché di autismo si parla in particolare riferendosi all’età evolutiva, fino ai 18 anni. Compiuti i quali, e in generale terminati gli studi superiori, molti servizi vengono meno come se le necessità sparissero con l’età “adulta”. Paradossale se pensiamo che, a partire dall’ultima edizione del DSM, lo spettro autistico viene descritto proprio in termini del livello di supporto del quale ha bisogno la persona, e che non è raro oggi ricevere una diagnosi in età adulta.
Qualche giorno fa sulla rivista Autism è stato pubblicato un piccolo report che tirava le fila rispetto a quelle richieste avanzate nel 2017. Hanno sortito un effetto sulla destinazione dei fondi per la ricerca nel biennio 2017-2019? Si è tolto il focus dagli studi biologici e genetici per ri-bilanciare le risorse? La risposta è no. Questo genere di indagini, importanti come lo è sempre la ricerca di base ma destinate a non avere un impatto concreto sulla vita di chi è autistico oggi o sulle famiglie, continuano ad assorbire la maggioranza dei fondi. Quasi il 33%, seguiti dai trattamenti con circa il 23%. Ma bisogna scendere ancora parecchio lungo la classifica per trovare quanto del budget è stato destinato a ciò che era stato segnalato come prioritario, ovvero interventi e lifespan issues: rispettivamente, il 5,02% e il 2,51%.
Cambiare approccio
Non si tratta dell’unico aspetto riguardo al quale le richieste e le necessità della comunità autistica – i diretti interessati così come i familiari – non trovano un reale riscontro in quanto poi viene messo in campo. Vale anche per gli interventi il cui obiettivo è migliorare le competenze sociali dei bambini e ragazzi autistici in modo che siano “più integrati”, o per le richieste fatte loro nelle ore di scuola.
Possiamo sperare che buona parte tra terapeuti e insegnanti sappia che un* bambin* autistic* non va costrett* a tutti i costi a guardare negli occhi, a socializzare con i compagni, a esprimersi anche verbalmente se lo ha già fatto usando un altro canale, ad esempio le immagini, o ad accendere la webcam durante la DaD se quel tipo di esposizione l* sovraccarica. Ma ancora oggi spesso si prova a insegnare loro a interagire in modi che non gli appartengono così che quelli che preferiscono, magari percepiti come strani o non accettabili anche quando sono semplicemente differenti (e non li mettono in pericolo né creano reali difficoltà), sembrino via via meno evidenti. L’obiettivo da porsi dovrebbe essere far convivere modi diversi di essere, e non di voler per forza includere i diversi in quello maggioritario, insegnandolo.
Eppure a volte basta cambiare prospettiva, anche partendo dalla ricerca scientifica. Tra le iniziative più recenti c’è quella degli psicologi della The University of Texas di Dallas coordinati da Noah Sasson, che hanno provato a promuovere la comprensione e l’accettazione dell’autismo tra i non autistici. Il loro punto di partenza sono stati proprio gli stereotipi che per qualche motivo non si riescono ad abbandonare – tanto più che in aprile, con l’Autism Acceptance Month, ricompaiono puntualmente -: l’idea che gli autistici siano tutti solitari e senza amici, che vivano “in una bolla”, che non abbiano alcun interesse verso il prossimo, che non provino empatia. Ieri sera mi è capitato sott’occhio un titolo di giornale tremendo nel quale la metafora non era più la bolla, siamo arrivati alla “caverna” dell’autismo, nella quale – si dà per scontato – il bambino soffre e dalla quale vuole uscire. Una narrazione che può avere solo effetti negativi, eppure resta la predominante sui media mainstream e non solo. Senza pretesa di esaustività, qui avevo compilato qualche linea guida per scrivere (e parlare) un po’ meglio di autismo.
Lo studio
Desiree Jones, dottoranda alla School of Behavioral and Brain Sciences e autrice di riferimento dello studio, spiega che promuovere la conoscenza dell’autismo tra gli adulti non autistici rappresenta un cambiamento importante nell’approccio usato per migliorare le esperienze delle persone autistiche, e che lo ha “preso in prestito” dalla ricerca condotta sui temi della razza e dell’etnia. “Concentrarsi sul comportamento autistico pone il fardello dell’esclusione sociale sulle persone autistiche, quando in realtà dovremmo affrontare gli atteggiamenti che portano gli altri a stigmatizzare i comportamenti autistici”, dice Jones in un comunicato.
La ricerca in ambito razziale, spiega inoltre, “suggerisce che le persone con dei bias razziali tendono a vedere la razza come un monolite, assegnando a ogni membro le stesse caratteristiche. Mostrando loro persone diverse che appartengono a quel gruppo, si possono mettere alla prova gli stereotipi. Crediamo che lo stesso principio possa applicarsi all’autismo”. E l’assunto è adeguato, se pensiamo a quanta diversità includa oggi lo spettro autistico, anche se per molti l’idea di autismo corrisponde ancora a quella del bambino chiuso nella bolla, del piccolo genio asociale, di Sheldon Cooper, del savant. Paradossalmente, nonostante la limpidità di Greta Thunberg riguardo al suo essere Asperger, in pochi al sentire la parola autismo oggi visualizzano una ragazza o una donna (eppure!).
Gli psicologi hanno diviso i partecipanti allo studio, 238 adulti non autistici, in tre gruppi. Il primo ha visto un video sul tema dell’accettazione dell’autismo realizzato dagli scienziati della Simon Fraser University in collaborazione con un gruppo di autistici (si parlava soprattutto di come socializzare con una persona autistica, di cosa sia un sovraccarico autistico, di sensorialità); il secondo ha visto una presentazione generica sulla salute mentale senza particolari menzioni all’autismo; il terzo, gruppo di controllo, nulla. A quel punto a tutti sono state fatte delle domande per valutare i bias rispetto all’autismo, impliciti ed espliciti.
Come ci si aspettava, il primo gruppo aveva ora una maggior comprensione di cosa significhi essere nello spettro autistico e maggior interesse nel socializzare con persone nello spettro rispetto agli altri due. Al contempo restavano alcuni bias impliciti. “I bias espliciti sono consapevoli e si evolvono rapidamente”, spiega Sasson, mentre quelli impliciti, che molti nutrono rispetto al diverso da sé, “riflettono credenze sottostanti più consolidate – associazioni che sono state rinforzate nel tempo e che sono più resistenti al cambiamento”. Tra quelle solide convinzioni c’erano, spesso, gli identikit di autistico alla Rain Man proposti ininterrottamente dai media negli ultimi decenni. Autistico maschio, savant, strano.
E ora?
“Le persone autistiche si sentono spesso non ascoltate, non prese sul serio, pensano che non ci sia interesse nei loro confronti”, dice Sasson, il cui studio è stato pubblicato su Autism. Un modo per cambiare questa percezione sarebbe proprio seguire le indicazioni date dal comitato di settore menzionato a inizio articolo: dare ascolto agli autistici che possono raccontare cosa vorrebbero dalla ricerca scientifica e investire la maggior parte delle risorse negli ambiti che possono avere un impatto reale sulla loro vita, non tra qualche decennio quando sapremo quanti geni hanno qualcosa a che fare con l’autismo (nel frattempo potremmo già smettere di chiamarli “geni dell’autismo”) ma oggi. Nel laboratorio coordinato da Sasson diversi studenti sono autistici, e “svolgono un ruolo importante nella nostra ricerca e mi hanno insegnato parecchio”, aggiunge la scienziata.
La direzione della ricerca nel laboratorio di Sasson resta quella di ascoltare la comunità autistica e riuscire a stabilire un chiaro collegamento tra l’accettazione dell’autismo nella società e l’impatto che questo può avere sul benessere, sulla salute mentale e qualità della vita delle persone autistiche. Che rispetto alla popolazione generale sperimentano altissimi livelli di ansia, hanno il quadruplo delle possibilità di sperimentare la depressione a un certo punto della vita e, nel caso degli autistici adulti senza DSA – secondo i dati di Autistica per il Regno Unito – un rischio 9 volte maggiore di morire per suicidio.
“Non è facile essere autistici in un mondo a predominanza non autistica, e rendere il mondo sociale un po’ più accogliente e amichevole per le differenze autistiche può fare molto per migliorare le condizioni della vita – personali e professionali – delle persone autistiche”, conclude Sasson.
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