Gli ingredienti sono i soliti: acqua, zucchero e camici bianchi, ma questa volta c’è qualcosa di diverso: un test clinico prova la validità dell’approccio omeopatico al trattamento delle artriti. A meno che non si legga lo studio coi risultati
IL PARCO DELLE BUFALE – Pubblicato il 13 novembre su Rheumatology, Homeopathy has clinical benefits in rheumatoid arthritis patients that are attributable to the consultation process but not the homeopathic remedy: a randomized controlled clinical trial da un team di ricerca sulla CAM (acronimo di Complementary and Alternative Medicine) dell’università di Southampton è già citato in parecchi siti italiani e non come prova (ulteriore per giunta) dell’efficacia dell’omeopatia.
Per quanto possa sembrare sorprendente, le cose non stanno così.
Il primo indizio è nel titolo stesso, che già scinde l’Omeopatia in due aspetti: il consulto con l’omeopata e l’assunzione del rimedio omeopatico, specificando che i risultati positivi sono dovuti al primo e non al secondo. Infatti la traduzione è: L’Omeopatia mostra effetti benefici in pazienti affetti da artrite reumatoide attribuibili al processo di consultazione ma non al rimedio omeopatico: un trial clinico randomizzato.
L’effetto terapeutico starebbe quindi nell’interazione personale tra omeopata e paziente, giustificando quindi la peculiarità e l’efficacia dell’approccio Omeopatico. Questo, in buona sostanza, consiste nel tempo che l’omeopata dedica alla visita di ogni paziente prima della prescrizione del rimedio. Nella medicina “ufficiale” invece la visita è di norma molto, per necessità o meno, molto più veloce e impersonale.
Forse non bisogna dirlo troppo forte, ma questo fattore è da sempre stato evidenziato come un catalizzatore dell’effetto placebo legato all’Omeopatia.
Qui di seguito il medico Bel Goldacre, autore del libro “La Cattiva scienza” (Mondadori, 2009) spiega chiaramente cos’è e come funziona un placebo, soffermandosi anche su questo aspetto cruciale: conoscendo i principi dell’effetto, i medici dovrebbero imparare che non solo è importante prescrivere la cura giusta, ma anche fare attenzione al modo in cui la si prescrive e la si somministra, e sfruttare questo a vantaggio del paziente.
Sempre rimanendo sul titolo, quindi lo studio non dice nulla che non fosse già noto, ma la pubblicazione offre anche spunti di riflessione che si agganciano alle recenti “falle” della letteratura scientifica raccontate da Oggiscienza qui, qui, e qui.
Steve Novella di Science-Based Medicine ha commentato lo studio dimostrando che nemmeno considerando separatamente questo “approccio omeopatico” i risultati sono significativi.
Nel suo articolo Homeopathy and the Selling of Nonspecific Effects (Omeopatia e la vendita di effetti non specifici), dopo aver fatto notare che sono gli autori stessi responsabili del “fuoco amico” quando riconoscono che il rimedio omeopatico somministrato non ha avuto effetti statisticamente significativi, richiama l’attenzione sul fatto che il trial era stato concepito in cieco solo per testare l’efficacia di rimedio omeopatico vs farmaco vs placebo, non del consulto omeopatico vs nessun consulto.
Se si voleva dimostrare la particolarità della consultazione omeopatica rispetto ad altri tipi di visita, lo studio avrebbe dovuto appunto confrontare se, a parità di condizioni come tempo della visita, attenzione alla persona ecc…, un consulto che includesse routine proprie dell’omeopatia avrebbe indotto più benefici di uno che invece ne fosse stato privo.
Scrive Novella:
[…] Dopo non essere riusciti a trovare effetti fisiologici specifici per molte delle terapie sotto l’egida della CAM, i loro promotori stanno cercando disperatamente di propinare gli effetti non specifici come se questi fossero specificamente dovuti alle loro procedure preferite. In altri contesti, questo potrebbe essere considerata come truffaldino. Certamente è scientificamente sospetto ai limiti della disonestà, secondo la mia opinione.
Ma l’interpretazione degli effetti non specifici è ben più di un’opinione, tanto che è significativo leggere l’editoriale della rivista Rheumatology su cui lo studio è stato pubblicato, intitolato appunto Homeopathy, non-specific effects and good medicine:
[…] Per questi motivi io suggerisco che si evitino complicazioni non necessarie e si prendano i risultati di Brien et al. per quello che valgono. I rimedi omeopatici non hanno effetti ma incontri terapeutici che guardano all’empatia invece sono di aiuto. Dunque dovremmo scartare quello che non funziona e adottare quello che è utile. Se lo facciamo, dobbiamo dire ai nostri pazienti che i rimedi omeopatici sono sia implausibili sia inefficaci. Per questo motivo, non dovrebbero essere consigliati. Ovviamente, dovremmo anche essere egualmente chiari affermando che le relazioni con i terapeuti sono in grado di influire sui risultati clinici.
L’autore dell’editoriale è Edzard Ernst, medico che, a giudicare dalle pubblicazioni al suo attivo su Rheumatology, è al di sopra di ogni complotto ordito da Big Pharma contro l’omeopatia, visto che sembra specializzato nello studio degli effetti dell’agopuntura.
Anche in questo caso quindi il miracolo secondo il quale l’acqua, durante la preparazione di un rimedio omeopatico, sarebbe in grado mantenere in memoria il “principio attivo” presente durante la diluizione, si ribella ai test orditi dalla scienza ufficiale.
Forse, la nostra scienza è ancora troppo primitiva per comprendere come possa esistere una farmacopea senza molecole.