SALUTE – Ci siamo. Dopo anni di annunci inseguiti da smentite, è arrivato sul mercato il primo test non invasivo per la diagnosi prenatale di anomalie cromosomiche su sangue materno. O almeno così lo presenta la ditta produttrice. A guardar bene, il test qualche carattere sperimentale ce l’ha ancora e il mercato è per ora ristretto soltanto a una ventina di grandi città degli Stati Uniti, ma non importa: un traguardo è stato tagliato e a questo punto la concorrenza farà il resto, accelerando ricerca e risultati. Il test in questione, della californiana Sequenom, si chiama MaterniT21 e promette di rilevaregià dalle 10 settimane di gravidanza un’eventuale trisomia 21 del feto (la presenza di tre cromosomi 21, uno in più del normale: una condizione che causa sindrome di Down) a partire da un semplice prelievo di sangue materno. Oltre agli entusiasmi, però, non mancano perplessità sull’applicazione e la diffusione di questo tipo di test.
Il punto di partenza è il rischio connesso ai test invasivi di diagnosi prenatale, cioè amniocentesi e villocentesi, gli unici in grado di dire chiaramente se un feto è portatore di un’anomalia nel numero o nella struttura dei cromosomi oppure no. Nella maggior parte dei casi, questi test vengono eseguiti per verificare se il feto sia affetto o meno da sindrome di Down (o da malattie genetiche per le quali la coppia è particolarmente a rischio) e, in caso di malattia, decidere se proseguire o meno la gravidanza. Il problema è che entrambi comportano il prelievo in utero, tramite un ago, rispettivamente di liquido amniotico o di materiale fetale (villi coriali): una procedura che può portare all’interruzione della gravidanza, con un rischio di aborto dello 0,5-1%, indipendentemente dal fatto che il feto sia sano o malato.
Per questo, da almeno trent’anni si cerca una strada alternativa. Un ottimo risultato è stato la messa a punto di indagini non invasive come il bi-test (esame del sangue materno abbinato a ecografia fetale) che, pur senza porre una diagnosi definitiva, descrive il rischio individuale di alcune anomalie (tipicamente trisomia 21, 13 e 18, le più frequenti). Con questo test ogni coppia saprà qual è il rischio specifico per il proprio feto e a seconda del risultato potrà decidere se dimenticarsi del problema (pur sapendo che ha ottenuto una stima di rischio e non una certezza) oppure procedere con l’analisi invasiva. Il vero obiettivo, però, è un test che dia certezze e non probabilità, come villo-e amniocentesi, senza far correre rischi al bambino.
Per raggiungerlo, si lavora da tempo sul sangue materno, dove circolano sia cellule fetali sia Dna fetale libero. L’idea è semplice (la realizzazione un po’ meno): purificare quelle cellule o quel Dna dal sangue della mamma e analizzarli per ottenere informazioni precise sullo stato di salute del feto. Il mese scorso la Sequenom ha annunciato di esserci riuscita, almeno per quanto riguarda la trisomia 21. MaterniT21 sarebbe in grado di misurare il contenuto relativo di cromosoma 21 nel sangue materno, individuando eccedenze che sarebbero da attribuire a un feto con l’anomalia. Secondo quanto riportato sul sito dell’azienda (in base a risultati ottenuti con uno studio clinico internazionale finanziato dalla stessa Sequenom), l’accuratezza dell’esame sarebbe altissima: il test identificherebbe oltre il 99% dei casi di trisomia 21, con rischio molto basso di falsi positivi e di falsi negativi.
Ottimi risultati, è evidente. Ma forse non siamo ancora alle certezze. Tanto è vero che al momento il test – a proposito, costa 1900 dollari (235 per pazienti assicurati) – è consigliato soprattutto come uno strumento in più che si colloca tra i tradizionali test non invasivi e quelli invasivi. Dopo un risultato ambiguo al bi-test e prima di un’amniocentesi, insomma, una coppia può decidere di “affinare” la definizione del proprio rischio attraverso il MaterniT21.
«La mia impressione è che siamo ancora in una zona grigia tra probabilità e certezza», afferma Franca Dagna Bricarelli, coordinatrice del Dipartimento ligure di genetica e presidentessa della Società italiana di genetica umana dal 2005 al 2009. La breccia, comunque, è ormai aperta e nuovi annunci si attendono a breve. La stessa Sequenom sta lavorando a un’implementazione del test per l’analisi di altri cromosomi e ha avviato accordi con partner europei per la commercializzazione dei suoi servizi di laboratorio anche nel vecchio continente. Altre ditte, come la Artemis Health o la Gene Security Network, sempre in California sono pronte al grande balzo e non solo per anomalie cromosomiche: l’idea è analizzare anche singoli geni fetali
Anche in Italia le cose si stanno muovendo: il gruppo di Gian Carlo di Renzo, dell’Università e del Policlinico di Perugia, per esempio, ha messo a punto un altro test non invasivo per la diagnosi di anomalie dei cromosomi 13, 18, 21 e dei cromosomi sessuali XY, che può essere eseguito a 12-13 settimane di gravidanza. «Il metodo è differente rispetto a quello della Sequenom», spiega Di Renzo. «Non lavoriamo su Dna libero ma su cellule fetali, che isoliamo da sangue materno e poi amplifichiamo in coltura. Infine, svolgiamo le stesse analisi citogenetiche effettuate per amnio-o villocentesi. I dati ottenuti finora ci dicono che il test è sicuro e accurato». La sperimentazione, però, è ancora in corso (e riguarda esclusivamente pazienti della regione Umbria). Di Renzo, inoltre, sta lavorando sul fronte dell’analisi precoce (8-10 settimane di gravidanza) da sangue materno del sesso del feto. «Abbiamo appena pubblicato uno studio su Clinical Genetics, mostrando la fattibilità dell’esame. Lo scopo di un test del genere, ovviamente, non è quello di soddisfare una curiosità, ma diagnostico-terapeutico: disporre di uno strumento sicuro ed efficace da utilizzare in caso di rischio di malattie legate al sesso».
Se, come sempre all’alba di quella che si preannuncia una rivoluzione metodologica, il fermento è grande, non da meno sono le perplessità sulle nuove prospettive. «Mi chiedo se le coppie di genitori arriveranno preparate a test di questo tipo: semplici, veloci, prescritti senza troppe spiegazioni, ma dalle implicazioni potenzialmente molto pesanti», dice Dagna Bricarelli. «Nel caso dei test invasivi in genere ci si pensa a lungo e c’è un’adeguata consulenza genetica alla base. Già con il bi-test spesso non è così: l’esame è diventato di routine e nei centri privati spesso manca il colloquio preliminare con i genitori. Nessuno si accerta che mamme e papà abbiano davvero capito che cosa si cerca con quell’indagine e che tipo di risultato si ottiene. Eppure stiamo parlando di indagini che possono evidenziare un rischio elevato di anomalie cromosomiche, il che in genere implica l’esecuzione di test invasivi ed eventualmente la difficilissima valutazione se interrompere o meno la gravidanza. I genitori non possono essere precipitati d’un botto in questo percorso, ci devono arrivare preparati».
Un commento pubblicato sulla rivista Nature nel gennaio 2011 elencava altri possibili temi caldi dal punto di vista etico: come sempre c’è chi teme che la disponibilità di test così easy possa incrementare gli aborti, chi si preoccupa dei costi di indagini prenatali a tappeto, chi teme lo spettro dell’eugenetica e della selezione sessuale, anche considerato che l’aborto selettivo di feti femminili è già una realtà in molti paesi (India e Cina in testa, ma non solo. Ne parla l’ultimo libro della giornalista Anna Meldolesi, Mai nate).
Insomma lo strumento che, se non proprio oggi sicuramente domani, stiamo per avere in mano è utile e potente: «Bisognerà però trovare il modo», conclude Dagna Bricarelli «per far sì che chi lo sceglie lo faccia in modo davvero consapevole».