AMBIENTE – 4,5 miliardi di dollari di multa per circa 5 milioni di barili di petrolio dispersi in mare. Il più alto risarcimento nella storia degli Stati Uniti per il peggior disastro dell’industria petrolifera: l’esplosione della piattaforma BP Deepwater Horizon nel Golfo del Messico è una storia di tristi primati.
Il dramma degli eventi accaduti a partire dal 20 aprile 2010 (qui un’ottima sintesi) non è affatto risolto, come era d’altronde prevedibile.
In realtà di questo dramma la comunità scientifica (ma non solo essa) ha ancora molto da comprendere, nonostante sia stata prodotta, da due anni a questa parte, una quantità notevole di documenti relativi all’accaduto. Per necessità di sintesi mi limiterò a tracciare alcune evidenze relative agli impatti ambientali di questo disastro.
Iniziamo con le certezze. Questo è uno tra i primi studi che inchiodano la BP quale responsabile della contaminazione del Golfo del Messico: un team di scienziati americani ha infatti usato gli idrocarburi policiclici aromatici come “impronte digitali” del grezzo fuoriuscito dal giacimento sottomarino detto Macondo per dimostrare che i composti tossici accumulati nello zooplancton pescato nel Golfo del Messico settentrionale sono effettivamente riconducibili all’incidente. A chi si stia chiedendo quali siano gli effetti diretti di tali contaminanti, nel limite dell’incertezza del caso, posso segnalare la ricerca che suggerisce come le comunità planctivore si siano dimostrate resilienti all’accaduto anche in relazione al fatto che gli effetti negativi diretti, dovuti all’esposizione al grezzo, sono stati compensati da una diminuzione della predazione.
Meno rasserenante è lo studio che individua nel grezzo uscito dal pozzo Macondo il colpevole della devastazione della comunità corallina d’altura del Golfo del Messico, situata a 7 km a sud-ovest dal pozzo, ora interamente coperta da uno strato di muco, “un cimitero di coralli” la definisce Erik Cordes, biologo alla Temple University. Tipicamente i coralli di acque profonde non vengono interessati dalla fuoriuscita di petrolio ma in questo caso la profondità e la temperatura coinvolte durante l’incidente hanno creato plum di particelle di grezzo che si muovevano a grandi profondità, causando danni senza precedenti. Danni, sia detto, che non riguardano solo questi importanti habitat delle acque profonde ma tutta la rete trofica che essi supportano.
Risalendo la catena alimentare, secondo le indicazioni attuali, non sono state registrate perdite catastrofiche nel comparto ittico a seguito dell’incidente ma – a detta dei ricercatori – gli effetti ritardati e indiretti sono ancora imprevedibili (ma da dove vengono allora queste stime ?). A tal proposito trovo interessanti spunti da questa applicazione che permette di combinare immagini satellitari raccolte durante la fuoriuscita di petrolio con le località storicamente legate alla pesca. Il risultato ? Nella regione della fuoriuscita sono state trovate gran parte delle specie esaminate e più della metà delle specie di pesci endemiche. Inoltre petrolio superficiale è stato rilevato nel 100% delle zone di gli avvistamentoi settentrionali dello squalo balena, nel 32,8% delle zone di deposizione di uova del tonno rosso in zona di deposizione delle uova e nel 38% delle aree di sviluppo larvale del marlin blu, tanto per dirne qualcuna. Non esagererei con l’ottimismo quindi.
A riprova di ciò, dopo l’incidente è stata già riscontrata una mortalità esponenziale in altri vertebrati, in particolare negli uccelli ma anche nelle tartarughe e nei mammiferi marini. A tal proposito un rapporto, commissionato dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), ha evidenziato come anche i sopravvissuti non se la passano così bene: in molti delfini residenti a Barataria Bay (Louisiana), area vicina al luogo del disastro petrolifero, sono state riscontrate malattie polmonari e del fegato, oltre che anemia, dimagrimenti consistenti e bassi livelli di un ormone che aiuta i mammiferi di affrontare lo stress così come regolamentare il loro metabolismo e sistema immunitario. Lo studio era stato deciso a seguito di un anormale spiaggiamento di tursiopi: solo nel 2010 sono stati registrati 139 spiaggiamenti (48 prima dell’incidente) rispetto ad una media di 20 negli anni 2002-2009.
Nel frattempo lungo le coste della Lousiana, la gran parte dei 75 chilometri di saline colpite dal greggio sta recuperando la propria funzionalità. Una buona notizia? Solo in parte perché l’alta mortalità della componente vegetale registrata in seguito alla marea nera ha raddoppiato i tassi di erosione del litorale, con una ulteriore perdita, forse permanente, della superficie delle paludi. Venendo a mancare l’azione delle piante litoranee che rompono le onde e rallentano le correnti, non è più possibile la deposizione dei sedimenti nelle aree più interne e quindi la crescita delle paludi a fronte di un innalzamento marino. La stessa azione, per intendersi, che ha consentito di proteggere le paludi dalla marea nera della Deepwater Horizon, bloccandola nei primi venti metri della costa.
Si potrebbe continuare ancora entrando via via nei dettagli (e forse nelle contraddizioni). Ma la domanda che continua a ronzarmi in testa è “come si calcola un danno incalcolabile?” 4,5 miliardi di dollari sono la giusta risposta per tutto questo? E la risposta non la trovo.
Crediti immagine: ideum