SALUTE – Il dolore fa bene: ciò che non uccide ti dà forza. Quante volte lo abbiamo sentito o detto a qualcuno che soffre, nella speranza di aiutarlo a resistere? È un problema culturale capace di ammorbidirsi solo davanti a pazienti al limite della sopportazione: oncologici, malati terminali. Per fare luce su un tema poco noto, è nato il progetto “Spegni il dolore – la rete delle lampade”, rivolto per ora al reparto pediatrico di alcuni ospedali italiani, e quindi al dolore nei pazienti più piccoli. Medici, psicologi, infermieri e personale qualificato hanno costruito un questionario di autovalutazione che aiuti a mappare il livello di servizi e cure erogate in ambito di terapia del dolore da ogni singolo centro. A ogni ospedale che aderirà all’iniziativa verrà assegnata, sulla base dei servizi erogati in riferimento a strutture definite gold standard, una o più lampade del sorriso.
L’obiettivo è fornire uno strumento che aiuti ad individuare e a risolvere eventuali carenze, con lo scopo finale di arrivare a creare una rete di eccellenze.
L’iniziativa è stata promossa dall’Associazione vivere senza dolore e dalla Fondazione Maruzza Lefebvre, sotto la direzione scientifica di Franca Benini, responsabile del Centro di riferimento regionale Veneto di Terapia del dolore e Cpp – Dipartimento di Pediatria dell’Università di Padova.
Per capire cosa si intende per dolore cronico a livello pediatrico, così come nell’adulto, abbiamo rivolto alcune domande a Franca Benini, responsabile del progetto.
Come è nato questo progetto?
“Ci siamo resi conto della necessità di eseguire una indagine epidemiologica su tutto il territorio nazionale per capire quanto fosse valutato il dolore nel settore pediatrico. La qualità di cura e quindi di vita di un piccolo paziente possono migliorare se si è in grado di capire quanto dolore prova e dove. E quindi è fondamentale intervenire per placare e trattare il problema in parallelo con la terapia che cura la patologia”.
La cura e il trattamento del dolore sono in parallelo, quindi: una non sostituisce l’altra?
“Sono complementari ed entrambe permettono di migliorare la qualità della vita di un paziente e di evitare sofferenze inutili. Mentre si decide la terapia per eliminare la causa di una patologia o curare una determinata malattia, è importante non lasciare che il paziente soffra per dolori di varia entità. Anche durante la gestione della causa, è possibile comunque eliminare uno dei sintomi, ossia il dolore. Non esiste alcun motivo medico per lasciare che il paziente lo sperimenti”.
Come viene percepito in Italia il problema del dolore?
“L’idea che il dolore sia utile, che la sofferenza abbia risvolti positivi sulla crescita dell’individuo ha creato le condizioni attuali: negli ospedali italiani c’è poca attenzione al dolore. In realtà nel bambino sperimentarlo per lunghi periodi o anche in fase acuta può avere ripercussioni negative poiché abbassa la soglia del dolore e genera un ricordo che può restare nell’adulto. In Italia, come abbiamo detto, si conosce poco il problema del dolore ed è per questo che il nostro progetto è ancora più importante. Abbiamo creato uno strumento semplice che da un lato motiva gli ospedali ad adottare strategie per accompagnare alla cura anche terapie antalgiche adeguate, dall’altro permette di avere una classifica strutturata in livelli nel quale l’ospedale può riconoscersi e da lì migliorarsi”.
Quali sono le tipologie più importanti di dolore cronico?
“Si parla di dolore cronico quando si presenta per più di tre mesi in modo continuo. Nei bambini sono ricorrenti cefalea, dolore addominale, dolori intercostali, dolore onco-reumatico, che origina da tumori o da malattie croniche di tipo metabolico”.
Il dolore però è soggettivo …
“Sì, il dolore è un’esperienza soggettiva. Il mio e il suo dolore non saranno uguali e comunque è difficile poterli confrontare. Per questo esistono dei metodi validati, ossia riconosciuti da altri studi che accertano che il sistema misuri davvero il dolore, che possono aiutare il medico nella comprensione del dolore provato dal paziente. Si tratta solitamente di questionari e scale studiati appositamente per diverse tipologie di paziente. Esistono sistemi nei quali si deve attribuire un punteggio al proprio dolore, o indicare una faccina la cui espressione è correlata al dolore provato. Esistono situazioni complesse come i neonati, i bambini con problemi neuromotori o bambini pretermine in terapia intensiva: per ciascuno esistono scale studiate ad hoc oppure si chiede l’aiuto dei genitori nell’interpretazione di smorfie e atteggiamenti. Il sistema più semplice? Chiedere al bambino quanto male ha. Spesso tendiamo a credere poco al piccolo paziente e invece è la miglior fonte di informazioni”.
Quali sono i farmaci utilizzati per eliminare o ridurre il dolore?
“Si utilizzano i farmaci non oppiodi, gli oppiodi intermedi e infine una combinazione tra non oppiodi e oppiodi. Si tratta di studiare e mettere a punto un programma per il singolo paziente. Grazie alla conoscenza di questi farmaci possiamo stabilire una dose corretta che permetta di monitorare eventuali rischi. Nel nostro Paese c’è una sfiducia nei confronti del farmaco, soprattutto se correlato a una funzione puramente antidolorifica o analgesica: si pensa che il suo effetto collaterale eventuale non porti a un vantaggio giustificabile. E qui torniamo al discorso culturale: vige la concezione che provare dolore non sia negativo e che si possa cercare di resistere”.
Crediti immagine: e-Magine, Flickr