SPECIALI – È da lì che è iniziato il fenomeno: le prime navi partite alla conquista di nuove terre sono salpate dal porto di Genova. Ora, come se fossimo legati da un filo indissolubile alla nostra storia, i territori conquistati in modo indebito dall’Italia nei paesi più poveri ammontano a una superficie pari alla regione Liguria. Se invece facciamo una stima imprecisa di tutti i territori che si sono accaparrati i paesi più ricchi, la superficie coperta supera quella della nostra penisola.
Quello che una volta si chiamava colonialismo, oggi viene definito con una parola inglese: land grabbing o resource grabbing, sono i termini usati per indicare l’appropriazione indebita di terre o risorse dell’Africa o dell’America Latina. Il possesso di queste terre diviene un accaparramento quando vengono violati i diritti umani, quando non si richiede il consenso delle comunità locali, se mancano contratti trasparenti e programmazioni o se non si valutano impatti sociali e ambientali.
Nella classifica mondiale stilata dalla banca dati Land Matrix, sono l’America, la Malesia e gli Emirati Arabi a possedere la maggior parte delle terre. In Europa, il primo è il Regno Unito, seguito dai Paesi Bassi. L’Italia si è espansa soprattutto in Africa toccando diversi stati, e il terreno ci interessa in prevalenza per scopi agricoli.
Il fenomeno non si sta certo arrestando: la crisi globale riguarda cibo, energia, finanza e ambiente. Le multinazionali, i governi e i più potenti attori economici nazionali e trans-nazionali continuano la corsa verso le terre cosidette “libere”, perché non coltivate o perché prive di regolamentazioni sulla proprietà.
La storia del land grabbing
La storia dell’espansione all’esterno dei propri confini per sfruttare risorse di altre terre comincia con le esplorazioni del 1500 e si conclude in modo formale nella seconda metà del secolo scorso. «Ma quello che spingeva i conquistatori del passato non coicide più con le ragioni presenti, che son dettate dal particolare contesto storico», ha spiegato al Festival Internazionale del Giornalismo 2014 Roberto Sensi, policy officer del programma “Diritto al cibo” di ActionAid Italia.
La storia del land grabbing inizia in maniera ufficiale tra il 2007 e il 2008. Da una parte c’è l’aumento dei prezzi iniziato dal 2006, che ha duplicato il costo del riso e dei cereali in pochi mesi. Dall’altra parte c’è il numero delle persone denutrite, che è aumentato di 63 milioni di unità (secondo le stime FAO 2008).
La necessità di prendere provvedimenti fa riunire a Roma una Commissione per la sicurezza del cibo, che vede tra i suoi partecipanti Nazioni Unite e World Bank. Quest’ultima ha lanciato di lì a poco un programma di finanziamenti in risposta alla crisi del cibo, forte della giustificazione di portare investimenti là dove c’è molta terra da sfruttare ma poco denaro per avviare progetti di sviluppo.
Perché tante terre? Perché quelle terre?
Le previsioni per il futuro impongono a tutti gli stati di pensare alle risorse: l’ONU ha stimato che nei prossimi 30-40 anni la popolazione mondiale supererà i nove miliardi. Secondo il rapporto annuale dell‘International Food Policy Research Institute, per sfamarci tutti dovremo aumentare del 78% la produzione di carne, del 57% quella di cereali e del 36% quella di radici e tuberi. L’unica soluzione è spostare l’attenzione dal controllo della filiera alimentare alla materia prima, la terra. Forti di queste motivazioni, nel solo anno 2008 i paesi ricchi hanno adocchiato 56 milioni di ettari di terreno collocati in paesi poveri, cioè là dove è più facile entrarne in possesso.
Il secondo gruppo che ha messo le mani sulla terra è rappresentato da uomini della finanza che decidono di investire in terreni agricoli, visti come una copertura dai rischi finanziari e un investimento con un ritorno sicuro per il futuro. Ci sono fondi di investimento che speculano sulla moneta e sulla terra, «ma queste speculazioni non sono indolori, perché ribaltano la logica della produzione e delle politiche di sviluppo» ha commentato Sensi. «Il massimo del profitto in breve tempo contrasta con gli obiettivi di crescita, che necessitano di tempi medio-lunghi».
Ma non è solo il cibo che giustifica la corsa alla terra, perché un terreno serve anche a fornire energia con la coltivazione di piante adatte alla produzione di biocarburanti. E l’introduzione della variabile energia aumenta ancora di più il desiderio di terra. «Se la domanda alimentare è elastica» ha spiegato Sensi, «la richiesta di energia è potenzialmente infinita». Infatti una persona può consumare sempre la stessa quantità di cibo, mentre può facilmente duplicare o triplicare il proprio consumo energetico.
Il processo di conquista delle terre nei paesi in via di sviluppo è di certo favorito dalle politiche locali, prive di regole precise, incapaci di gestire grandi investimenti o di comprendere le proposte, avide di denaro. Il sistema fondiario africano ad esempio è diverso da quello occidentale: dopo la colonizzazione, la terra è passata in mano ai governi e la proprietà è basata sulla consuetudine: la terra è di chi la usa, che però non possiede alcun atto di proprietà.
Ma la responsabilità ce l’hanno anche enti pubblici e stati che hanno stanziato fondi e investimenti a questo scopo, o che hanno tolto dazi nel commercio di certi prodotti proprio per incentivare lo sfruttamento delle terre in una certa direzione. E, in seguito al calo del denaro pubblico, una parte importante la stanno facendo anche gli investitori privati, grandi ditte e multinazionali, che agiscono in modo ancora più incontrollato.
La necessità di regolamentare il fenomeno
Uno degli studi più ambiziosi riguardanti il land grabbing è stato pubblicato da World Bank nel 2010. Il rapporto “Rising global interest in farmland: can it yield sustainable and equitable benefits?” ha messo in luce come i compratori raggirassero governi corrotti o indebitati, per espellere i contadini più poveri dalle terre che occupavano senza i titoli fondiari tradizionali. In modo contraddittorio però, lo stesso studio sosteneva gli investimenti produttivi per sfruttare terre arabili in modo da trarne profitto.
Le Nazioni Unite nel rapporto Special Rapporteur hanno sottolineato la necessità di portare gli investimenti a sostegno dei piccoli agricoltori e del micro-commercio locale. La coltivazione di queste terre invece è pensata per finanziare grandi imprese, e per lanciare nel commercio internazionale i pordotti usati dal mondo occidentale. E non è solo questione di etica o di impatto sociale: i piccoli agricoltori spesso investono 10 volte di più nelle loro attività rispetto alle grandi multinazionali.
Già nel 2009 sono stati formulati 7 principi per un investimento responsabile in agricoltura. Tra questi vi era per esempio la richiesta di riconoscere in fase di investimento i diritti esistenti sulla terra e sulle risorse naturali; oppure di generare un impatto sociale positivo in seguito all’Acquisizione delle terre. Ma di fatto i principi poco concreti non sono serviti a regolare la corsa a nuovi territori.
Nel 2013 un secondo documento firmato dalla quasi totalità degli stati facenti parte dell’ONU, le Voluntary guidelines on responsible land tenure, ha ribadito la necessità di fare gli interessi dei cittadini locali, ma di nuovo senza imporre alcuna regola.
La soluzione ci sarebbe, ma sono i paesi a livello internazionale che non vogliono abbracciare questa via di fuga e che non vogliono prendersi le loro responsabilità.
In questo, tanto stanno facendo le organizzazioni non governative come ActionAid. Nei paesi in via di sviluppo è importante rendere la popolazione locale consapevole dei propri diritti e organizzare la loro azione. In occidente è necessario sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di questi temi. Spesso infatti sono le mobilitazioni internazionali che danno voce e sostegno ai movimenti dei piccoli contadini in lotta contro il land grabbing. Portare l’opinione pubblica a conoscenza del fenomeno è fondamentale anche perché «se non cambia la politica agricola e del cibo nei paesi ricchi, non ci sarà cibo per i paesi poveri», ha concluso Sensi.
Crediti immagine: Immanuel-Clio, Wikimedia Commons
Grafici: Giulia Annovi
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