L’eredità del bimbo
Quando le cellule fetali restano nella mamma: il caso dell'artrite reumatoide
GRAVIDANZA E DINTORNI – Durante la gravidanza, mamma e bambino non solo si scambiano sostanze chimiche e un oceano di emozioni, ma possono anche scambiarsi cellule intere: alcune passano dalla prima al secondo, altre fanno il percorso inverso. È il fenomeno grazie al quale possiamo andare a cercare DNA fetale nel sangue della mamma, una strategia non invasiva di screening prenatale. A volte, però, le cellule fetali – e dunque il loro DNA – possono rimanere nel corpo di mamma ben più a lungo dei mesi della gravidanza, addirittura per anni o per tutta la vita. Gli scienziati parlano di microchimerismo, dalla mitologica Chimera: significa, in pratica, che in alcune donne che abbiano partorito, o anche vissuto una gravidanza che si è interrotta, possono essere rimaste piccole tracce tangibili dei loro figli (2-3 cellule ogni 100.000 cellule materne). Il fenomeno è ben descritto soprattutto per quanto riguarda la persistenza di cellule maschili, più facili da identificare perché basta cercare il cromosoma Y. Un’eredità speciale, dunque, che secondo alcune linee di ricerca potrebbe anche avere conseguenze – positive o negative, dipende dai casi – sulla salute materna. L’ultimo dato in proposito riguarda l’artrite reumatoide, una malattia autoimmune caratterizzata da infiammazione di alcune articolazioni, che risultano gonfie, rigide e dolenti.
Al recente congresso dell’American Society of Human Genetics, Giovanna Cruz e colleghi, dell’Università di Berkeley, hanno presentato un lavoro secondo il quale donne con figli che hanno alcune varianti genetiche associate a un aumento del rischio di artrite reumatoide mostrano a loro volta un rischio più elevato di ammalarsi, indipendentemente dal loro stesso corredo genetico. «Il microchimerismo fetale è più frequente nelle donne con artrite reumatoide che in controlli sani» spiega Giovanna Cruz. «Noi abbiamo osservato che, per la mamma, la presenza di cellule fetali con un corredo genetico ad alto rischio si associa effettivamente a un aumento del rischio di malattia». I geni in questione sono quelli chiamati collettivamente geni HLA, codificanti per piccole molecole presenti sulla superficie di ogni cellula, con la funzione di segnalazione per il sistema immunitario. In breve, lo aiutano a distinguere il self (ciò che appartiene all’organismo sano) dal non self (ciò che è estraneo). In caso di trapianto, sono proprio le molecole HLA che devono essere le più simili possibili, se non identiche, tra donatore e ricevente, per ridurre il rischio di rigetto.
I risultati di Cruz e collaboratori, per quanto da approfondire, suggeriscono dunque che tra i vari fattori di predisposizione all’artrite reumatoide ci sia anche il microchimerismo fetale, nel caso in cui le cellule lasciate indietro dai figli contengano geni “ad alto rischio”. E poiché questi geni sono di fatto di derivazione paterna, si può dire che sia addirittura il papà – attraverso gravidanza e bambino – a influenzare il rischio di malattia della donna. In che modo le cellule fetali favoriscano l’innesco della malattia, però, è ancora da chiarire. «Una possibilità è che il sistema immunitario materno reagisca alla presenza di questi “intrusi” attivando una risposta autoimmune» chiarisce la ricercatrice. «Ma potrebbero anche essere alcune cellule di origine fetale a sferrare l’attacco».
Quello dell’artrite reumatoide non è l’unico caso in cui il microchimerismo fetale è stato associato a malattie autoimmuni. Al Fred Hutchinson Cancer Center di Seattle, per esempio, Lee Nelson – pioniera della ricerca nel campo e tra gli autori della scoperta che cellule fetali residue possono insediarsi anche nel cervello – studia da anni la sclerodermia, malattia caratterizzata da ispessimento della pelle o degli organi interni. Nelson ha visto che le pazienti affette da sclerodermia presentano livelli di microchimerismo fetale nel sangue più alti di quelli di controlli sani. E che, in questo caso, il rischio di malattia è più elevato per le donne i cui figli hanno varianti HLA più simili alle loro. Un controsenso? In realtà potrebbe esserci una spiegazione: il fatto è che geni molto diversi potrebbero venire facilmente riconosciuti come non self, mentre geni simili potrebbero mandare in confusione il sistema immunitario, alterando l’equilibrio che di norma permette di attaccare solo gli estranei.
L’eredità cellulare dei figli, però, potrebbe non essere sempre negativa. In alcune particolari circostanze, il microchimerismo fetale potrebbe essere addirittura protettivo nei confronti dell’artrite reumatoide e sembra inoltre associato a un minor rischio di alcune forme tumorali, in particolare di cancro al seno. Qui l’ipotesi è che la risposta immunitaria attivata dalla presenza delle cellule fetali mantenga l’organismo allenato sul fronte della sorveglianza immunitaria, aiutandolo a riconoscere e a stroncare sul nascere eventuali cellule tumorali. Ed è anche possibile che siano in gioco meccanismi di riparazione dei tessuti, promossi dalle cellule filiali. Un recente studio danese, per quanto piccolo, ha inoltre evidenziato un minor tasso di mortalità per donne che mostrano microchimerismo fetale: il che non significa che non muoiano, ma che vivrebbero più a lungo delle altre.
Naturalmente è ancora presto per dire che cosa significhino esattamente queste suggestive associazioni e se nascondano un vero rapporto causa-effetto. E gli eventuali meccanismi sono ancora tutti da chiarire. «Però capire perché il microchimerismo fetale si verifichi in alcune donne e non in altre potrebbe aiutarci a saperne di più sulle cause di alcune malattie, e darci indicazioni per una migliore stratificazione del rischio» suggerisce Giovanna Cruz. «Non solo: se il fenomeno fosse davvero rilevante per l’insorgenza di qualche malattia, potrebbe anche rappresentare un target terapeutico». Di sicuro è una bella sfida. E una dimostrazione di quanto una gravidanza possa cambiare una donna, per sempre.
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