Cani per la conservazione delle specie
In Africa sono rimaste poche manciate di gorilla del Cross River, e per i ricercatori è sempre più difficile studiarli e monitorare le popolazioni. Ma i cani potrebbero fare la differenza, grazie al loro naso straordinario
WHAAAT? Il venerdì casual della scienza – Un po’ di code della Working Dogs for Conservation, che addestra cani per missioni e lavori legati alla conservazione delle specie negli ambienti più ostici, hanno viaggiato dagli Stati Uniti fino all’Africa per… cercare feci di gorilla. Più precisamente di gorilla del Cross River, una sottospecie (Gorilla gorilla diehli) che ormai da tempo sulla Lista Rossa IUCN ha superato il triste stadio di endangered, minacciato, ed è ora critical: in natura ne sono rimasti pochissimi, sembra tra i 200 e i 300 esemplari, tutti nelle foreste della Nigeria e del Camerun.
Certo sapere se sono 200 o 300 sarebbe utile, come conoscere la composizione dei gruppi di animali, l’età, poterne seguire gli spostamenti. Un tipo di operazioni che normalmente fanno gli stessi ricercatori, monitorando un animale nel tempo dopo averlo marcato ed eventualmente ricatturandolo, così da stimare (gorilla dopo gorilla) le dimensioni delle popolazioni. Ma con un primate come il gorilla di Cross River, grande e in una situazione critica, la questione si è fatta più complessa e le stime sono rimaste piuttosto vaghe. Ed è così che i ricercatori hanno spostato l’attenzione su qualcosa di più facile da analizzare e “ricatturare”. Gli escrementi dei gorilla.
Cosa può dirci una pila di feci di gorilla? Parecchie cose in realtà. Si può ottenere il suo DNA, informazioni sulla sua alimentazione e sui batteri che vivono nel suo intestino, sugli ormoni che produce. Raccogliendo più volte le feci dello stesso individuo, inoltre, si può fare grossomodo lo stesso tipo di monitoraggio che si fa normalmente sull’animale vero e proprio. Per scoprire sesso, età e caratteristiche del singolo ma anche del gruppo cui appartiene.
Ed è qui che entrano in gioco i cani, come spiegano i ricercatori (tedeschi e statunitensi) sulla rivista Royal Society Open Science, dove hanno pubblicato i risultati del loro primo studio pilota. Cani che ne hanno fatta di strada da quando erano usati solo per la ricerca di narcotici o tartufi -ora i nasi trovano anche i tumori-, e che sono diventati preziosi strumenti per fare passi avanti nella conservazione delle specie.
Un po’ come succede con la pet therapy, anche in questo caso il lavoro è di squadra tra il cane e il suo conduttore, e l’efficacia della ricerca aumenta moltissimo rispetto a quando i ricercatori lavorano da soli. Normalmente le attività di ricerca si concentrano intorno ai luoghi di aggregazione, cercando di ottimizzare i tempi nei dintorni dei nidi; un metodo che, tuttavia, fornisce scarse informazioni sui singoli individui. I cani invece perlustrano aree intere e permettono di monitorare più animali: compresi quelli che, muovendosi a distanza dai nidi, di norma non verrebbero individuati. Così l’accuratezza delle stime cresce.
Da questa prima esperienza sembra quindi che l’idea di usare i cani sia vincente, fatta eccezione per un dettaglio che non è troppo un dettaglio: i costi. Poche settimane di indagine pilota, per confermare l’efficacia del metodo, sono costate quasi 100mila dollari. Molto più delle spese che normalmente sostengono le attività in loco di un team di ricercatori. Secondo gli autori della pubblicazione il progetto resta promettente, e potrebbe aver posto le basi per avviare un programma canino in loco. In Africa.
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