Depressione maggiore: due varianti geniche e qualche difficoltà
Trovata una correlazione tra depressione maggiore e due varianti geniche. In una di queste sarebbero coinvolti i mitocondri, ma i ricercatori suggeriscono di prendere i dati con cautela
RICERCA – Identificate due varianti geniche che potrebbero essere legate alla depressione maggiore. La scoperta è stata fatta dai ricercatori del Consorzio COVERAGE (China Oxford and VCU Experimental Research on Genetic Epidemiology), una collaborazione fra l’Università di Oxford, la Fudan University, in Cina, lo Hua Shan Hospital a Fudan e la Virginia Commonwealth University (VCU). I risultati sono stati descritti in un articolo pubblicato su Nature. Nonostante l’entusiasmo, però, non mancano i punti oscuri e i dubbi. Vediamo perché.
La depressione è una malattia invalidante psichiatrica che colpisce le sfere affettive e cognitive. A scatenarla sono più fattori, sia genetici che ambientali. Una delle forme di depressione più diffuse, dove la componente genetica sembra essere quella prevalente è il disturbo depressivo maggiore (MDD). Da decenni lo si studia, ma è difficile innanzitutto capirne l’eziologia. Una scarsità di informazioni che è in totale contrasto con l’impatto sulla società, dal momento che si tratta di una malattia comune, costosa e con alti tassi di mortalità.
Poiché vi sono diversi livelli di gravità e le terapie hanno efficacia molto variabile è probabile che si tratti di gruppi di patologie con sintomi in parte comuni. In altre parole il primo problema è una definizione più chiara della malattia. Segni di “tristezza”, infatti, fanno parte della vita quotidiana. Come segnare il confine tra normalità e malattia?
Si sa piuttosto poco però sui meccanismi di ereditarietà e per questo un gruppo di ricercatori ha cercato di indagare più a fondo le possibili varianti genetiche che possono essere correlate alla malattia. Come farlo? I ricercatori del Consorzio sono partiti dall’idea che uno dei principali problemi è l’eterogeneità di persone che hanno stessi sintomi, ma per motivi anche molto diversi, che vanno dal fattore genetico, all’ambiente, come povertà o vita malsana. Per limitare queste difficoltà si è quindi scelto di studiare solo i casi gravi che ci si aspetta abbiano dei “segnali genetici” meno complessi: questo approccio è infatti usato frequentemente per le malattie complesse.
Lo studio è stato effettuato su un vasto campione di persone, circa 10000 donne cinesi: metà sane e metà con diagnosi di depressione maggiore. La Cina è stata scelta perché la prevalenza di MDD è inferiore a quella degli Stati Uniti e dell’Europa. Dal confronto dei genomi i ricercatori sono riusciti a identificare due regioni del DNA (loci) collegabili al disturbo. La prima variante genica si trova vicino al gene SIRT1, mentre la seconda riguarda il gene LHPP e in particolare un suo introne, ovvero una zona che non codifica per proteine.
Questa seconda variante era in qualche modo “attesa”, visto che già in passato si era ipotizzato che il gene in questione potesse essere responsabile della depressione maggiore: lo studio era stato condotto su popolazioni Ashkenazi (discendenti di una comunità ebraica medioevale) e dello Utah.
La vera scoperta è stata la correlazione col gene SIRT1, che sappiamo avere un ruolo regolatorio nel funzionamento dei mitocondri, gli organelli indispensabili per dare energia alle cellule, oltre all’invecchiamento cellulare. Poco invece si sapeva sul suo possibile ruolo sulla depressione, come studi precedenti che sembrano escludere un nesso tra disturbo e meccanismi mitocondriali.
I risultati sono molto interessanti, anche se non mancano i dubbi, come riportato in un articolo di commento pubblicato su Nature da Patrick F. Sullivan, psichiatra e statistico medico all’Università del North Carolina e al Karolinska Institut di Stoccolma. Dal momento che vi sono molti geni connessi all’attività mitocondriale, andrebbe verificato un eventuale loro legame col disturbo in questione. Inoltre le correlazioni trovate potrebbero non valere in generale, ma essere legate alla specificità genetica della popolazione cinese, o ancora potrebbe trattarsi di un artefatto determinato dalla genotipizzazione usata, ovvero il sistema di definizione del genoma degli individui.
In ogni caso non vengono messi in secondo piano gli intriganti risultati dello studio, anche se si suggerisce di prendere i dati con cautela e progettare nuovi studi che possano confermare queste ipotesi per progettare strategie di trattamento efficaci.
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