Indonesia: una crisi ambientale, economica e sanitaria internazionale
L'emergenza indonesiana colpisce tutti i paesi del Sud-Est asiatico, con inevitabili ricadute politiche in un'area al centro dello scontro diplomatico tra Cina e Stati Uniti
APPROFONDIMENTO – Lo abbiamo vissuto con Fukushima, prima di allora con il disastro della Deepwater Horizon. Si potrebbe dire che la madre di tutte queste situazioni sia stata Chernobyl, ma succede, su scala minore, continuamente. Insomma, raramente un disastro naturale non tracima nelle nazioni confinanti. Ed è proprio quello che sta succedendo in Indonesia, dove i roghi dolosi stanno provocando non solo un grave allarme sanitario, ma anche non poche tensioni tra le nazioni del Sud-Est asiatico.
I fatti, ben spiegati qui, sono noti: in Indonesia questa è la stagione in cui le compagnie che producono olio di palma cercano di strappare alla foresta nuovi terreni fertili, e lo fanno con il metodo antiquato del “taglia e brucia”. Ma quest’anno la situazione è andata decisamente fuori controllo, e i fumi che si sono sprigionati da questi incendi hanno creato una situazione di emergenza socio-sanitaria che sta interessando non solo il Paese, ma tutta l’area del Sud-Est asiatico.
Le dimensioni del fenomeno
Partiamo da alcuni dati, che forse danno un’immagine chiara delle proporzioni di questo evento. Normalmente, l’Indonesia emette circa 2 milioni di tonnellate di diossido di carbonio al giorno (per confronto: gli Stati Uniti ne emettono 16, la Cina 29). Bloomberg, tuttavia, ha calcolato che già in settembre, e solo per effetto degli incendi, l’Indonesia stava emettendo 22,5 milioni di tonnellate di diossido di carbonio, che sono aumentati a 23 milioni nel mese di ottobre. Il picco finora registrato è stato il 14 ottobre, quando l’Indonesia ha emesso, in un solo giorno, 61 milioni di tonnellate. Il risultato è che, al momento, l’Indonesia ha prodotto più gas serra dell’intera produzione annuale tedesca. Il danno non è solo sanitario e ambientale, ma anche economico: nella crisi del 1997 l’Indonesia perse circa 300 milioni di dollari, mentre nel 2013, per una crisi più leggera dell’attuale, 50 milioni di dollari principalmente per gli effetti del fumo sulle imprese legate al turismo.
I Paesi colpiti
La NASA ha recentemente dichiarato che forse siamo davanti al più grave disastro ecologico di questo tipo, date anche le dimensioni internazionali che sta assumendo. Chiaramente, questi fumi, sollevandosi in atmosfera, vengono dispersi e vanno a incidere sulla vita quotidiana anche dei Paesi confinanti (qui alcune immagini interattive, che fanno capire bene che cosa questo significhi). Al momento, almeno sei Paesi sono stati colpiti dai fumi: il sud della Thailandia, il Vietnam, il Brunei, la Malesia e Singapore, dove la situazione sanitaria sta assumendo i contorni di una vera e propria emergenza. Alcuni sospettano che il fenomeno stia interessando anche la Cambogia e le Filippine.
La rabbia dei vicini
Gran parte di questi paesi fa parte dell’ASEAN (Association of South-East Asian Nations) e, soprattutto, è il terreno di scontro diplomatico tra Cina e Stati Uniti. La Cina, infatti, vede il Sud-Est asiatico come il proprio naturale “cortile di casa”, riprendendo, in salsa asiatica, la dottrina Monroe tanto cara agli stessi americani (la dottrina Monroe, formulata agli inizi dell’Ottocento, mira a garantire la supremazia degli Stati Uniti in tutto il continente americano). E la crisi indonesiana non poteva quindi non avere ricadute politiche. Sotto un profilo strettamente locale, tutti i vicini dell’Indonesia dietro i proclami di aiuto e vicinanza alla “difficile situazione del Paese”, non nascondono una forte irritazione per le evidenti mancanze del governo indonesiano nel controllare la situazione. Ma la Cina sta cercando di utilizzare questo evento per far capire chi veramente comanda nel Sud-Est asiatico.
La Cina si è finalmente mossa
Per risolvere tali mancanze il gigante cinese, con un eloquente ritardo (come a voler dire: “Se non mi muovo io, non si muove nessuno”), si è attivato. Con un’azione diplomatica abbastanza fuori dai propri standard, ha creato una coalizione eterogenea, ma forse efficace, imponendola all’Indonesia. Ha, insomma, “commissariato” il governo indonesiano. Sotto la guida della Cina, Sud Corea, Singapore, Malesia, Australia e Russia si sono dette pronte a intervenire, per fare ciò che il governo indonesiano non sembra capace: spegnere i fuochi. In particolare, la Cina ha messo a disposizione la propria esperienza di controllo meteorologico della piovosità (che utilizza quando lo smog delle sue megalopoli, in particolare di Pechino, arriva a livelli allarmanti), che però ha dei costi estremamente alti di intervento.
Un pronto-intervento che non c’è
I fumi indonesiani, insomma, hanno dimostrato per l’ennesima volta il paradosso del modello dello Stato-nazione, come fu per Fukushima e per Chernobyl: la causa è all’interno di uno Stato sovrano, e dunque solo lui può risolverlo (o eventualmente chiedere aiuto), ma gli effetti, gravissimi, si avvertono anche nelle nazioni confinanti e prossime, che però, almeno da un punto di vista formale, non possono intervenire sulla causa. Una delle opzioni sarebbe quella di creare una task-force, un modello di intervento standard e guidato dalla comunità internazionale, e non sotto la guida della potenza regionale di turno (in questo caso, la Cina). Ma, concretamente, questo non sembra comparire nell’agenda internazionale.
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