2 aprile, Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo
"Come se": l'approccio del CTRS al centro Mafalda Luce di Milano, dove la riabilitazione è un allenamento per la quotidianità e la relazione col prossimo
Almeno una persona ogni 160, nel mondo, soffre di un disturbo dello spettro autistico (DSA) come l’autismo o la sindrome di Asperger. Un gruppo vulnerabile, ancora discriminato e isolato nonostante dei DSA si parli molto e li si conosca sempre meglio. Le cause rimangono in parte incomprese, anche se negli ultimi anni la ricerca si è concentrata sull’indagine dei geni coinvolti, sulle differenze nella struttura del cervello e sulla possibile associazione con l’esposizione ad alcune sostanze in gravidanza.
Eppure, lo conferma l’OMS, i servizi sanitari ed educativi non sempre sono adeguati e le famiglie degli autistici devono superare grandi ostacoli emotivi ed economici. La Giornata della Consapevolezza sull’Autismo è dedicata anche a questo, sensibilizzare e lasciarci alle spalle i falsi miti con eventi in tutta Italia e una campagna di informazione, #sfidAutismo. Abbiamo colto l’occasione per parlare con Paolo Aliata, responsabile del CTRS di neuropsichiatria infantile dei disturbi pervasivi dello sviluppo al centro Mafalda Luce di Milano. Oggi il centro si prende cura di 41 bambini autistici, più della metà tra i 2 e i 5 anni, ed è una delle 15 strutture gestite dalla Fondazione Renato Piatti di Varese.
La metafora guida del vostro lavoro è “come se”, svolgere attività il più possibile simili a quelle della vita di tutti i giorni, il tutto in un ambiente “riabilitativo”. Ce lo spiega meglio?
Per i bimbi autistici la generalizzazione è un elemento critico, tendono ad associare un’azione a un determinato luogo, un tempo o a una persona. È difficile togliere questa “etichetta” ma lavorare in ambienti che ricordano quelli della quotidianità li aiuta. Pensiamo alla classe: da noi c’è lo spazio “come a scuola”, con dei banchi simili a quelli scolastici e in cui, non a caso, si svolgono gli interventi di tipo cognitivo. È come un allenamento, se riesci a fare certe cose in un luogo affine alla scuola, poi hai più probabilità di riuscirci nella scuola vera. Allo stesso modo abbiamo riprodotto un piccolo soggiorno, una cucina, una cameretta e un bagno per abituarli ad azioni casalinghe, che per i bambini più grandi possono essere anche stendere la biancheria o fare la lavatrice. Quando un ambiente è accogliente, strutturato e riesce a dare senso alle cose, diventa riabilitativo.
Con voi lavorano diverse professionalità dell’ambito sanitario. Logopedista, psicomotricista, terapista della riabilitazione e terapista occupazionale affiancano gli educatori professionali e la neuropsichiatra. Come funziona l’approccio riabilitativo?
Pur muovendoci all’interno delle indicazioni delle linee guida del Ministero della Salute, configuriamo il percorso con operatori dalle competenze molto diverse. Ma prima di tutto dobbiamo capire se siamo il centro adatto a chi si rivolge a noi, con una valutazione basata su ascolto e osservazione. Ipotizziamo degli elementi chiave per ogni bambino e, anche se il lavoro è sempre in gruppo, gli operatori sanno che ciascuno di loro ha criticità da affrontare e forze sulle quali contare. Non esiste un miglioramento che sia uguale agli altri. C’è chi inizia a parlare, chi riesce per la prima volta a rimanere seduto in compagnia di altri bambini. L’approccio intensivo è uno degli elementi chiave: i bambini con maggiori difficoltà, ad esempio, possono stare con noi anche cinque giorni a settimana per un anno. Poi via via sempre di meno, fino a quando possono lasciarci perché subentra il normale percorso scolastico. Un intervento precoce può fare la differenza e l’obiettivo è garantire gli elementi che permetteranno ai bambini autistici di vivere davvero la comunità.
Oggi sappiamo che l’autismo ha uno spettro molto ampio (da persone con gravi ritardi ad altre con alto funzionamento), ma quali sono i punti chiave?
Ogni bambino è diverso dagli altri, infatti spesso si parla di “autismi”. Ma la compromissione della comunicazione, delle relazioni con gli altri e interessi di vita ristretti sono alcuni degli elementi principali. Anche se si trovano in un contesto molto vario, i bambini si focalizzano su un’unica cosa e trascurano tutte le altre, faticano a cogliere la complessità e a viverla. Una definizione che mi piace molto, seppur non scientifica, è che l’autismo è un modo per affrontare il mondo. I bambini spesso faticano a dare un senso all’insieme delle cose, a gestire le ambivalenze. Proprio per questo, capire cosa succede significa stare meglio. La fatica nell’integrare le emozioni è anche legata al binomio comportamento-problema. Bambini e adulti autistici non sempre hanno voce per dire cosa sono, provano o vogliono, allora usano modi diversi. Il comportamento diventa messaggio è può segnalare malessere fisico, necessità. Interpretarlo aiuta a configurare una strategia, per ri-orientarlo e azzerarlo. A volte sono comportamenti eclatanti, etero o auto-lesionistici, da interpretare in modo molto concreto e ai quali si risponde cambiando ad esempio l’ambiente, i ritmi, le persone che seguono la riabilitazione del bambino. Attivando la rete che lo circonda, insomma, ed è anche per questo che il nostro centro lavora come servizio pubblico dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (UONPIA).
In base alla vostra esperienza, cosa è cambiato negli ultimi anni dal punto di vista dell’approccio terapeutico e della conoscenza dei DSA?
È aumentata la consapevolezza, oltre ai progressi nella ricerca scientifica che hanno permesso di identificare i vari livelli di possibili cause per l’autismo, facendo chiarezza su quelle che invece non lo sono. Inoltre sono stati messi da parte gli approcci non più considerati validi, come quello farmacologico tout-court e la comunicazione facilitata. Allo stesso tempo per i servizi si potrebbe e dovrebbe fare molto di più: in alcune strutture pubbliche le liste d’attesa superano i due anni e per quanto riguarda l’assistenza, il “dopo di noi” dei genitori, una volta che i ragazzi hanno compiuto i 14 anni c’è un vuoto di progettualità e prese in carico. Di positivo c’è che gli strumenti diagnostici per la prima valutazione hanno fatto grandi passi in avanti, oggi anche una maestra dell’asilo spesso è in grado di capire se c’è qualcosa che non va. L’aumento delle conoscenze ha permesso di attivare l’attenzione, e con essa i servizi. È più facile ottenere una diagnosi precoce, infatti al momento riceviamo almeno una richiesta a settimana per bimbi sotto i due anni. Nel complesso, uno dei punti cruciali è tenere insieme le conoscenze delle varie aree: esistono diversi approcci e metodi validati, come ABA, TEACHH, DIR, ma sarebbe sbagliato dire che uno è in assoluto il migliore rispetto a tutti gli altri. E il grosso rischio è standardizzarli, quando al centro ci deve essere sempre la persona.
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