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Più bello, più ricco, più bravo: gli animali fanno confronti come noi?

Tra esseri umani il giudizio sul prossimo passa quasi inevitabilmente attraverso un paragone con noi stessi. Ma anche per le altre specie fare un confronto è assai utile

I suricati confrontano il proprio corpo con quello dei rivali e, messi di fronte a un competitor che ingrassa, iniziano a mangiare di più a loro volta. Crediti immagine: Amada44, Wikimedia Commons

RICERCA – Se nasci suricata risalire la scala sociale non è un’impresa semplice. Arrivare in cima può richiedere anni ma significa monopolizzare la riproduzione, dunque mettere al mondo un sacco di piccoli e diffondere i propri geni. Ma come competere con chi domina la gerarchia? Ingozzandosi: maschi e femmine mangiano sempre di più per crescere, guadagnare peso e poter rispondere per le rime ai rivali. Ma una volta arrivati in vetta la sfida non è completa, perché per alcuni mesi si continua a crescere a ritmo spedito, per consolidare la propria posizione. E se c’è un rivale dal peso simile a incalzarli, l’approvvigionamento di cibo si fa ancora più intenso.

Non tutti i suricati riescono però a tenere il passo: alcuni gettano la spugna a metà strada, perché non ce la fanno o -come ipotizza Tim Clutton-Brock dell’Università di Cambridge- dedicare tutto questo tempo alla ricerca di cibo significa anche correre più rischi di essere predati. La competizione è spietata: poche femmine avranno l’opportunità di accoppiarsi, e quella dominante ucciderà i piccoli delle altre fino a quando avrà messo al mondo i suoi.

Su Nature il team guidato da Clutton-Brock ha fornito le prove di questa corsa all’ingrasso. Le piccole manguste confrontano il proprio corpo con quello dei rivali e, messe di fronte a un competitor che ingrassa, iniziano a mangiare di più a loro volta. Esiste una letteratura sempre più voluminosa che, secondo Clutton-Brock, sta cambiando le conoscenze sulla crescita dei vertebrati. Non si tratta di un processo statico, perché ci sono specie che la modificano attivamente e addirittura la sfruttano per competere. Allo stesso tempo il fatto che un individuo veda un rivale ingrassato e a sua volta mangi di più per raggiungerlo è un’ulteriore prova del fatto che gli animali si confrontano tra loro. Giudicano il prossimo usando se stessi come standard (social comparison) e agiscono di conseguenza.

Come per altri processi come l’inganno o l’insegnamento, il confronto sociale è qualcosa che (sbagliando) tendiamo a considerare come unicamente umano. Noi lo diamo per scontato perché lo facciamo continuamente: pensiamo che una collega è più o meno competente di noi sul lavoro, un amico più o meno affascinante e via dicendo. Il fatto di considerarci belli, brutti, ricchi o poveri è in gran parte legato al confronto della nostra situazione con quella altrui. Così lo standard nel giudicare gli altri siamo noi stessi, ed è uno standard così radicato che nella valutazione del prossimo è praticamente implicito il confronto con il sé.

Solo nelle performance? No, per noi come per altre specie anche quando si tratta del valore di un premio. Gli studi hanno già mostrato questi comportamenti in specie come le scimmie cappuccine (Cebus apella), che ad esempio rifiutano di collaborare con i ricercatori se un loro compagno ha ricevuto una ricompensa di maggior valore. Secondo i primatologi Sarah Brosnan e Frans de Waal, che nel 2003 hanno pubblicato su Nature uno studio al riguardo, nell’evoluzione della cooperazione potrebbe essere stato cruciale poter confrontare i propri sforzi (e i risultati ottenuti) con quelli degli altri. Ed è questo il motivo per il quale una scimmia cappuccina reagisce male quando queste aspettative vengono tradite: gli esemplari dello studio si rifiutavano di partecipare ai test dopo aver visto un loro conspecifico ottenere, per lo stesso sforzo, un premio più interessante. La reazione era ancora più marcata quando otteneva il premio senza essersi impegnato affatto.

Che si parta da noi, dalle scimmie cappuccine o dal suricate, il processo evolutivo che ha portato a questa capacità rimane poco chiaro. La condividiamo con specie che formano stretti legami sociali? È legata a doppio filo con la consapevolezza di sé? Secondo molti scienziati si tratta di un meccanismo cognitivo condiviso che si è evoluto in risposta alla vita in una società complessa. Valutare il prossimo e sapere di cosa è capace rispetto a me è decisamente utile: se è un rivale grosso, anziano e con molta esperienza mi permette di capire che sfidarlo non è una buona idea. E la stima non deve necessariamente passare attraverso la visione: canti e richiami non servono solo ad attirare le femmine comunicando quanto si è dei buoni partiti, ma anche a farlo sapere ai possibili rivali.

Il primo pensiero va probabilmente agli scimpanzé, che nella vita di tutti i giorni devono continuamente valutare lo status sociale del loro prossimo e decidere in funzione di questo come rapportarvisi (anche per le galline, in realtà, la questione può farsi complicata). Stabilire chi è quello scimpanzé di fronte a noi può essere cruciale: è un potenziale alleato? È un compagno affidabile? Il confronto avviene di continuo, non solo rispetto al presente ma anche ricordando i comportamenti del passato. Già negli anni ’80 del secolo scorso De Waal e i colleghi osservarono che gli scimpanzé si coalizzavano tra loro per lottare contro altri gruppi che a loro volta si erano uniti come loro avversari, ma anche che un esemplare che era stato tirchio con il proprio cibo veniva ripagato dagli altri con la stessa moneta quando i tempi di magra arrivavano per lui.

I primati tendono a occupare il palcoscenico in questo senso, eppure esempi di confronto arrivano anche da altre specie molto studiate per le dinamiche di gruppo, come i pesci. Nello specifico i guppy, molto apprezzati dagli acquariofili e soggetti di studio assai interessanti.

I maschi di questa specie, Poecilia reticulata, hanno corpi e pinne dai colori estremamente vari mentre le femmine sono meno appariscenti. Sia gli studi controllati in laboratorio che quelli in natura hanno mostrato che i maschi con pattern cromatici rari sono partiti più ambiti, proprio come gli uccelli dal piumaggio sgargiante e sano vengono più apprezzati dalle femmine. Ma non finisce qui: questi maschi “rari” scelgono attivamente di avvicinarsi alle femmine che in precedenza erano circondate da rivali poco colorati. Confrontano la propria livrea con quella dei rivali e, se migliore, si fanno avanti. In un’altra specie, il ciclide Amatitlania nigrofasciata, a fare i confronti con il prossimo sono le femmine: prediligono come partner sessuali i maschi con dimensioni di un terzo più grandi delle loro.

Se dell’evoluzione di un’abilità che diamo per scontata sappiamo ancora poco, ancor meno sappiamo che effetti abbia negli animali sulla percezione del sé. Per noi il confronto con il prossimo può essere un vero e proprio modo per auto-definirci, come più o meno qualcosa (ricchi, belli, agili), ma non è una valutazione che avviene sempre nello stesso modo. Gli scienziati hanno scoperto, ad esempio, che l’appartenenza a una categoria può cambiare i “risultati” della valutazione. Anche quando questa categoria il genere: in uno studio in cui i maschi dovevano valutare delle donne in base a quanto erano “premurose”, per poi definire la percezione di loro stessi, si auto-includevano involontariamente in un gruppo diverso. Il risultato era che valutando una donna e confrontandosi con lei si sentivano mediamente meno premurosi rispetto a quando valutavano un uomo.

Una delle domande più intriganti, ma anche più in sospeso per i suoi confini nebulosi, è se la capacità di confronto sociale sia legata in qualche modo all’auto-consapevolezza, la capacità di riconoscersi come un’entità diversa e separata dagli altri. Se vogliamo, la coscienza del sé. Si tratta di un aspetto difficile da indagare quanto lo è da definire, per il quale si fa ancora riferimento a un test vecchio di cinquant’anni e messo in discussione da molti scienziati: il test dello specchio. Si dipinge un segno sul corpo dell’animale, lo si porta di fronte a uno specchio e si osserva come si comporta. Se cerca di pulirsi e/o tocca la zona in cui c’è il segno, l’interpretazione è che abbia riconosciuto che non si trova di fronte a un altro individuo ma che quello che vede è il suo corpo.

Eppure ci sono specie che non instaurano il contatto visivo perché lo considerano segno di aggressività, altre che interagiscono contando in primis sull’olfatto (ad esempio i cani) e che dunque non sono nella posizione di dare il meglio di sé di fronte a un test del genere. A chiarire i limiti di questo test, se vogliamo, sono proprio gli scimpanzé. Ovvero la specie che più di tutte abbiamo imparato a considerare come un vicino “cugino”. Solo la metà degli scimpanzé ha successo nel test dello specchio, ma la performance va calando via via che invecchiano (quando gli individui diventano più selettivi su come e con chi impiegano il tempo).

Dove sta dunque questa coscienza del sé? L’opinione di molti ricercatori, dopo le ipotesi più svariate, è oggi che non sia collocata in un’area precisa del cervello, come quelle legate all’apprendimento o alla memoria, bensì sia il frutto dell’attività cerebrale in zone diverse.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Gli animali sono curiosi?

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".