La peste suina africana minaccia l’industria di maiali più grande del mondo
L'epidemia di peste suina africana potrebbe mettere a rischio l'economia cinese, se lasciata incontrollata, diffondersi a macchia d’olio.
ATTUALITÀ – Nella nazione in cui si possono contare circa 430 milioni di maiali, un virus letale si sta diffondendo negli allevamenti di suini e nelle popolazioni di cinghiali selvatici. Dalle regioni più a Nord della Cina, riporta Science, arriva l’allarmante notizia della scoperta di focolai di peste suina africana (PSA), una malattia tanto contagiosa quanto letale.
Considerando che ancora non esistono vaccini o cure, non è difficile stimare che la malattia in breve tempo potrebbe portare a una decimazione degli allevamenti.
Una delle principali difficoltà che il paese dovrà affrontare per cercare di contenere il morbo ha a che fare proprio con una caratteristica degli allevamenti di suini cinesi. Questi sono spesso di dimensioni molto ridotte, quasi sempre isolati e a conduzione familiare. Gli esperti temono che proprio in questi ambienti, in cui le norme di sicurezza per evitare rischi biologici non sono una priorità, la peste suina africana possa trovare un terreno fertile per la sua propagazione.
Riuscire a raggiungere queste piccole realtà e far adottare loro le stesse norme di prevenzione che normalmente adottano i grandi allevamenti “è la sfida più grande che la Cina deve affrontare per controllare la PSA” afferma Yang Hanchun, virologo alla China Agricultural University di Pechino.
Come avviene il contagio
Per fortuna il virus della PSA non può essere trasmesso all’essere umano, anche se siamo uno dei suoi principali agenti di propagazione. In un video illustrativo all’interno di un comunicato stampa dedicato all’epidemia, l’EFSA (European Food Safety Authority), oltre a fornire importanti dettagli su come riconoscere la malattia, illustra anche le norme da seguire sia nel caso in cui la PSA si manifesti nell’allevamento sia per prevenirne la comparsa.
Nel video, inoltre, l’EFSA mette in guardia gli allevatori sul rischio concreto che il morbo possa diffondersi attraverso il contatto dei maiali con attrezzature e indumenti contaminati. Un’altra forma di trasmissione indiretta, sempre causata dall’essere umano, può avvenire con la somministrazione ai maiali di residui o scarti di cucina. Il virus infatti è talmente resistente da sopravvivere anche per alcuni mesi all’interno dei salumi o in altri cibi a base di carne suina.
È di fondamentale importanza, sempre secondo le direttive dell’agenzia, impedire al bestiame di avere contatti con altri animali provenienti dall’esterno. In particolare modo i cinghiali selvatici che sono liberi di scorrazzare nei boschi e nelle campagne rappresentano uno degli agenti di diffusione più efficace e pericoloso.
La storia della malattia
La peste suina africana non è un problema nuovo. La prima comparsa del morbo risale alla prima metà del ‘900, probabilmente in Kenya. Poi grazie all’incredibile resistenza del virus ha iniziato a spostarsi in tutto il mondo, senza però creare crisi allarmanti. In Cina, però, il rischio che questo si verifichi è altissimo. Nel tentativo di conoscere meglio il proprio nemico, gli scienziati dell’istituto di Medicina Veterinaria Militare sono riusciti a ricostruire il percorso che hanno fatto i vari focolai della malattia e, attraverso analisi genetiche, sono riusciti a identificare nella Russia il punto di partenza della malattia che affligge la popolazione suina della nazione cinese.
Poiché la Cina convive da anni con un allarmante problema di carenza di proteine, la nazione asiatica si è trasformata nel più grande importatore di carni di maiale e, tra quello che importa e quello che produce autonomamente arriva a consumare il 50% della produzione mondiale di carne di suino. Dal momento che gran parte delle importazioni arrivano dal vicino paese sovietico, probabilmente è proprio da lì che è stato importato anche il virus.
Per gli esperti la peste suina africana potrebbe trasformarsi presto in un incubo. Se le autorità veterinarie cinesi non saranno in grado di contenere il morbo e impedire la sua diffusione, considerando l’enorme quantità di soggetti a rischio, avverte François Roger, epidemiologo al Centro di Agricoltura per lo sviluppo a Montpellier, “questo potrebbe rappresentare un grave problema anche per il resto del mondo”.
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