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Immunoterapia per le malattie autoimmuni. A che punto siamo?

La ricerca a oggi è solo sui modelli animali, ma gli scienziati sono ottimisti: ne abbiamo parlato con Vincenzo Russo, Responsabile dell’Unità di Immuno-Bioterapia del Melanoma e dei Tumori Solidi dell’Ospedale San Raffaele di Milano.

L’approccio immunoterapico non riguarda solo i tumori. Alcune malattie autoimmuni come il diabete, l’encefalite autoimmune – che rappresenta l’equivalente murino della sclerosi multipla umana – e alcune malattie autoimmuni cutanee sono ottime candidate per questo tipo di trattamento. Sebbene al momento non ci siano ancora studi in corso sugli esseri umani, i risultati di diversi trial condotti su modelli animali rendono gli scienziati ottimisti per i prossimi anni.

In aprile la prestigiosa rivista Nature ha pubblicato un editoriale che titolava in maniera chiara “Le malattie autoimmuni beneficeranno di terapie basate sui successi delle immunoterapie tumorali”. A che punto siamo? Ne abbiamo parlato con Vincenzo Russo, Responsabile dell’Unità di Immuno-Bioterapia del Melanoma e dei Tumori Solidi dell’Ospedale San Raffaele di Milano.

Anzitutto Professore, che cos’è l’immunoterapia?

L’immunoterapia è un approccio nato per la prevenzione e il trattamento di malattie infettive ed attualmente impiegato con successo in oncologia. L’immunoterapia in oncologia consta di due approcci. Il primo si basa sui cosiddetti Inibitori dei Checkpoints. I checkpoints si trovano sulla superficie di alcune cellule del nostro sistema immunitario, i linfociti T, e inibiscono la risposta immunitaria quando si legano a specifici recettori espressi dalle cellule tumorali.

L’idea di fondo è stata quella di mettere a punto dei farmaci in grado di inibire questi checkpoints in modo da permettere ai linfociti T (cellule del sistema immunitario) di annientare le cellule tumorali. Si tratta della scoperta che ha valso il premio Nobel per la medicina nel 2018 a James P. Allison e Tasuku Honjo. Il secondo approccio sono le terapie CAR-T, dove si ingegnerizzano i linfociti T della persona malata di cancro affinché esprimano nuovi recettori in grado di riconoscere le cellule tumorali.

Attualmente gli inibitori di checkpoints –  il più utilizzato è un anticorpo anti-PD-1 – sono farmaci impiegati per il trattamento dei tumori al polmone non a piccole cellule, per i tumori testa-collo, e i melanomi, i tumori vescicali ed alcuni linfomi. Le terapie CAR-T vengono attualmente impiegate per il trattamento di tumori del sangue, come le leucemie.

Che cosa si intende per approccio immunoterapico alle malattie autoimmuni?

Da recenti studi è emerso che entrambi questi approcci possono essere applicati anche al trattamento di alcune malattie autoimmuni, ma si tratta di sfruttare l’altra faccia della medaglia dell’immunoterapia, perché qui il problema è proprio il nostro sistema immunitario. Le immunoterapie per il trattamento del cancro e quelle per il trattamento dell’autoimmunità cercano effetti opposti sul sistema immunitario: in ambito oncologico l’obiettivo è innescare o migliorare le risposte immunitarie contro i tumori; nell’autoimmunità invece l’obiettivo è promuovere la soppressione immunitaria e frenare l’infiammazione.

Ci può fare qualche esempio pratico?

Prendiamo per esempio l’anticorpo anti- PD-1, che inibisce il checkpoint PD-1. Uno studio molto recente, pubblicato da Chen e colleghi su Nature Biomedical Engineering il 6 aprile 2019, ha dimostrato che una singola catena dell’anticorpo anti-PD-1, coniugato ad una tossina batterica, è in grado di uccidere selettivamente linfociti T auto-reattivi cioè in grado di indurre diabete o encefalite autoimmune per il diabete nei topi. Questo studio ha dimostrato che la somministrazione di questa immunotossina migliora i sintomi e previene il peggioramento o aggravamento di queste malattie. L’articolo conclude affermando che l’esaurimento mirato delle cellule T auto-reattive che esprimono PD-1 , potrebbe essere efficace nel trattamento di una vasta gamma di malattie autoimmuni.

Per quanto riguarda le terapie CAR-T, già nel 2016 uno studio pubblicato su Science si focalizzava sull’ ingegnerizzazione delle cellule T umane per esprimere un recettore chimerico autoanticorpale (CAAR) che riconosce il recettore di cellule B diretto contro un autoantigene, costituito dalla proteina target del Pemphigus Vulgaris. Queste cellule CAAR-T riconoscono quindi i linfociti B autoreattivi e li eliminano selettivamente. I ricercatori avevano concluso che le cellule CAAR-T possono fornire una strategia efficace e universale per il targeting specifico delle cellule B autoreattive in malattie autoimmuni mediate da anticorpi.

Quali sono gli aspetti più preoccupanti di questo approccio?

Sicuramente la questione degli effetti collaterali. Aumentare o sopprimere il sistema immunitario tramite questi nuovi farmaci biologici è una questione delicata, che può portare con sé problemi come infezioni fungine e linfomi (nei pazienti trattati con inibitori del TNF), nonché l’innesco di autoimmunità o sindrome da rilascio di citochine in pazienti trattati con inibitori dei checkpoints immunitari o con cellule CAR-T. Se si dovesse arrivare a realizzare un approccio valido per l’uomo, sarebbe comunque rivolto a queii pazienti affetti da patologie autoimmuni che evolvono fatalmente o che non rispondono più alle terapie convenzionali.

Il bilancio quindi è ottimista o pessimista?

Sicuramente ottimista in prospettiva, per gli ottimi risultati che si stanno ottenendo sui modelli animali, anche se ci vorrà ancora qualche tempo e ulteriori risultati, in particolare relativi alla sicurezza e agli effetti collaterali, per mettere a punto degli studi sull’uomo.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   Foto: Pixabay

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.