Cavallo: guardare al passato (e alle evidenze scientifiche) per una gestione migliore
Vita in branco, locomozione, alimentazione. Le motivazioni del cavallo sono semplici, perché si tratta delle sue caratteristiche biologiche. Eppure nella gestione in scuderia vengono spesso dimenticate.
Il primo ostacolo all’avere uno sguardo più ampio – e magari costruttivamente critico – sul nostro rapporto con i cavalli deriva dal fatto che, se pensiamo all’equitazione, spesso pensiamo a uno sport. Di squadra sì, un team di due, ma comunque un’attività sportiva che andiamo a imparare, che si svolge in un certo modo, con determinati tempi e strumenti, in molti casi non messi in discussione da decenni. Il divario può essere enorme anche solo cambiando il centro in cui impariamo ad andare a cavallo, in cui qualcuno ci introduce al rapporto – da terra e in sella – e alla gestione di quel rapporto nei momenti di incomprensione.
La relazione con il cavallo: trascorriamo insieme tempo di qualità?
La relazione con i cavalli può assumere infinite sfaccettature diverse, ma in tanti casi si riduce ad attività e momenti prestabiliti, sempre uguali: ti prendo dal box per prepararti, salgo in sella e facciamo attività, finita la lezione magari ti porto qualcosa di buono per premiarti, vado a casa. Molte scelte, anche nella gestione, vengono fatte mettendo al primo posto la nostra comodità (ad esempio trovare un cavallo discretamente pulito e pronto per essere preparato) e non il benessere o le esigenze del cavallo come specie animale, prima che come compagno in un’attività da noi scelta. A fianco di un repertorio così spesso limitato, ci sono i “sentito dire” che ancora aleggiano nell’ambiente, così come pratiche di addestramento o gestione basate sulla tradizione e non aggiornate né discusse nell’ottica delle scoperte scientifiche più recenti.
Approfondita un po’ di “scienza del cavallo”, molte cose in scuderia cominceranno ad apparirci davvero poco sensate. Come orientarsi allora, per migliorare la comunicazione e rendere il tempo trascorso insieme più proficuo e interessante per entrambi?
Prima di tutto, accettando di mettere in discussione molti assunti e lasciando da parte tutte le pratiche non basate su evidenze scientifiche. Anche se poco si riflette nell’attività equestre quotidiana – e di benessere del cavallo sentiamo parlare quasi solamente in situazioni eclatanti, come il palio di Siena o maltrattamenti palesi – negli ultimi decenni la ricerca scientifica ha fatto enormi passi in avanti nella conoscenza di questi animali, non solo dal punto di vista veterinario e per migliorarne la gestione e impiego ma da quello cognitivo, nello specifico della comunicazione: sappiamo che i cavalli riconoscono singolarmente gli altri cavalli come individui – così come riconoscono le singole persone -, comunicano in maniera sofisticata tra loro ma anche con noi (che in genere non siamo in grado di capire quello che ci dicono e a volte nemmeno proviamo a farlo) e sono capaci di manipolare la nostra attenzione. O ancora, leggono il nostro linguaggio del corpo e combinano espressioni del viso e tono di voce per comprendere le emozioni umane – anche quando hanno di fronte persone non note-, oltre a rispondere diversamente ai comandi se a fare la richiesta è chi il comando l’ha insegnato o un’altra persona.
Di benessere, comunicazione e molto altro abbiamo parlato con Paolo Baragli, medico veterinario esperto in comportamento animale e dottore in Fisiologia Equina del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa, co-autore del manuale “Cavalli allo specchio. Viaggio nella mente dei cavalli per conoscerli, addestrarli e gestirli in scuderia” (Pisa University Press 2017).
Dalla domesticazione del cavallo al presente molto è cambiato: chi è il cavallo oggi e quanto ha pesato la mano umana sulle sue caratteristiche?
Il cavallo oggi è un animale domestico. In natura il cavallo non esiste più come animale selvatico e tutte le popolazioni di cavalli bradi che troviamo sono reintrodotte nell’ambiente naturale dopo la domesticazione, anche quando non sembra così: un articolo pubblicato su Science ha mostrato, tramite indagini genetiche, che anche specie come il cavallo di Przewalski sono passate dalla domesticazione. In quel caso gli effetti veri e propri della domesticazione non sono presenti, ma si tratta comunque di animali re-immessi in natura, proprio come i Mustang o i cavallini della Giara.
Circa 6000 anni di domesticazione non hanno significato dal punto di vista evolutivo, è un periodo troppo breve, ma in questi millenni di contatto con l’essere umano senz’altro il cavallo ha adattato le sue strategie comportamentali e psicologiche alla relazione con noi, vista l’importanza che questa ha nella sua vita quotidiana. In moltissimi casi, basta pensare alla vita di scuderia, siamo l’interfaccia fra il cavallo e l’ambiente che lo circonda.
Poi ovviamente c’è la componente di selezione genetica, per determinate caratteristiche fisiche/attitudinali. Alcune di queste si confanno poco o per niente alla vita in natura, ma sono utili per le attività in cui impieghiamo i cavalli. Per esempio il fatto che l’allevamento produce cavalli destinati a specifiche attività: se in natura hanno dimensioni piuttosto piccole, troviamo cavalli impiegati nel salto a ostacolo alti anche 1,75 m.
Forti di nuove conoscenze scientifiche sul cavallo, nell’equitazione si sta cominciando a mettere in discussione le pratiche più legate al “si è sempre fatto così” che alle evidenze?
Siamo ancora molto lontani dal mettere in discussione determinate pratiche “ancestrali” di gestione e addestramento. Di certo sentiamo molto parlare di “etologia” e “benessere” del cavallo, ma spesso chi si propone come esperto in questo senso – oggi peraltro l’etologia sembra andare di moda e attira molto – non ha competenze scientifiche e documenta le proprie attività con spiegazioni che non si fondano su evidenze.
È un fenomeno curioso: se per i problemi di salute fisica del cavallo ci si rivolge, senza ombra di dubbio, al miglior veterinario/a a disposizione – e la veterinaria equina ha fatto passi da gigante negli ultimi 20 anni – per quelli di comportamento o addestramento non accade lo stesso. Ci si rivolge invece a chi si improvvisa esperto di etologia/ benessere/ comportamento equino, ma tra questi sono pochissimi ad aver davvero affrontato un percorso scientifico e pochi ad averne davvero fatto una professione. Per fare un paragone umano, è come se noi andassimo dall’ortopedico per una caviglia slogata, ma dal mago di turno per un problema di salute mentale. Siamo ancora lontani da un vero cambiamento in questo senso.
Quali sono gli aspetti più carenti di evidenze nelle pratiche/ teorie portate avanti da chi si improvvisa?
A tanti comportamenti del cavallo chi si improvvisa, non avendo background scientifico, dà spiegazioni nella migliore dei casi fantasiose: pensiamo a Monty Roberts che parla di un rapporto in cui l’essere umano, rispetto ai cavalli, è il capobranco, o ancora alla teoria che nella nostra mano aperta i cavalli vedano una minaccia pari all’artiglio di una tigre. Un animale che riconosce individualmente gli altri cavalli e le persone che gli stanno attorno, come potrebbe mai confondere una persona con un suo capobranco? O non saper distinguere la mano umana dalla zampa di un felino? Oggi pensare che queste cose siano vere vuol dire offendere l’intelligenza dei cavalli. Se i cavalli ci vedessero davvero come predatori, persino riuscire ad avvicinarci sarebbe un problema! Poi ancora, l’idea che il cervello del cavallo sia diviso in due e che questo faccia sì che le sue reazioni siano diverse in base al lato dal quale ci approcciamo.
I cavalli hanno una visione quasi esclusivamente monoculare. Possono certamente esserci reazioni diverse, da un lato o dall’altro, e ci sono evidenze scientifiche riguardo alla lateralizzazione secondo le quali un cavallo potrebbe tendere a usare preferibilmente l’uno o l’altro occhio in base agli stimoli. Tuttavia, a fronte delle conoscenze a disposizione, con un cavallo che reagisce in modo diverso da un lato o dall’altro farei un passo indietro e la prima domanda che mi porrei è: “che esperienze ha avuto?”. Prima di attribuire un comportamento alla lateralizzazione, ad esempio, partirei dal fatto che la maggior parte delle attività con i cavalli – come salire – le facciamo approcciandoli sempre dallo stesso lato, ovvero la sinistra. Tanti studi però non prendono in considerazione questo aspetto, e per questo motivo nell’ambito scientifico si dibatte tra il ruolo della lateralizzazione cerebrale (che è si un’evidenza scientifica) e quello dell’esperienza.
Quali sono le motivazioni principali di un cavallo e cosa possiamo fare per soddisfarle?
Le motivazioni principali di un cavallo sono semplici: sono le sue esigenze biologiche. Socialità, alimentazione conforme alle sue caratteristiche fisiologiche, necessità locomotorie e un ambiente naturale vario e mentalmente stimolante. Ovviamente le sue esigenze biologiche non collimano con i nostri interessi e con quello che abbiamo deciso di fare con i cavalli. La sfida, enorme, è trovare un punto di incontro fra le nostre e le sue esigenze. E su questo va detto che effettivamente qualcosa si sta muovendo: ad esempio c’è sempre di più l’attenzione a tenere il cavallo in paddock insieme ai suoi simili e non da solo. Questo è un piccolo ma deciso passo avanti, certo, ma è ora di pensare anche alle sue altre esigenze: sono tanti gli errori di gestione che si fanno nelle scuderie e hanno delle conseguenze. Alcuni studi – soprattutto francesi – hanno già mostrato che tanti comportamenti che i cavalli hanno in risposta a una gestione errata sono simili a quelli che vediamo nella depressione umana.
Quali altri esigenze dovremmo soddisfare?
Per esempio garantire che mastichino e mangino per gran parte del giorno, trovando soluzioni che consentano l’impiego del cavallo nelle attività di scuderia ma, al contempo, lasciandogli rispettare le esigenze da animale pascolatore. Per quanto riguarda poi la locomozione: il pascolamento ha incluso un movimento che è costante – un cavallo percorre anche 20-25 km al giorno solo pascolando – e c’è una funzione fisiologica in questo. Se i cavalli non vivono all’aperto, liberi di muoversi secondo le proprie esigenze, allora bisogna trovare un equilibrio. Bisogna pensare a dei surrogati, per esempio lasciare fieno a disposizione per il tempo che vuole e far muovere i cavalli nella giostra, oltre ad avere a disposizione dei paddock. Ho visto tantissimi box terribili e, per quanto mi riguarda, se non si ha un paddock non si dovrebbero tenere i cavalli.
Si possono fare piccoli cambiamenti utili anche durante la permanenza nei box, ad esempio non chiudere la porta ma posizionare una semplice catena che permetta loro di guardare e interagire con chi passa. Non sono accorgimenti complessi, ma ci vuole la volontà delle persone: nei paddock i cavalli possono stare insieme, così come in box vicini che consentano loro di toccarsi e fare grooming. Anche qui serve la pazienza, la volontà e il tempo di capire chi mettere vicino a chi. Se vogliamo cambiare le cose, dovranno per prima cosa cambiare le persone e il loro modo di percepire i cavalli.
Il capitano di cavalleria Federico Caprilli, che a fine ‘800 ha ideato il Sistema Naturale di Equitazione, scientificamente non sapeva niente: eppure è tra gli esperti che hanno compreso e descritto le attività con il cavallo così come dovrebbero essere fatte. Dovremmo tornare a questo, non c’è alcun bisogno di inventarsi cose nuove e prive di fondamento scientifico o che hanno connotati “magici”.
Ci sono attività che noi percepiamo come “fare sport con il nostro cavallo” e sono invece per lui/ lei fonte di stress? Come possiamo cogliere i segnali più evidenti e pensare ad attività che possano essere positive per entrambi?
Tutte le attività che facciamo col cavallo possono essere fonte di stress e lo sono. Non è però l’attività in sé, bensì la gestione del cavallo soprattutto per quanto concerne l’addestramento e il lavoro in sella. Ci sono solo due opzioni. La prima è quella di montare a cavallo, domarlo e addestrarlo con la coercizione – non solo fisica – e senza avere idea delle conseguenze che le nostre azioni hanno nella sua mente e sul suo fisico. Questo è ciò che accade nella norma, diciamo nel 99,9% dei casi, anche per quelle situazioni che sono giudicate da alcuni “etologicamente corrette”, comprese le cosiddette natural horsemanships che si servono comunque di rinforzo negativo e coercizione, anche se meno evidenti all’occhio umano e perciò considerati più “eticamente accettabile”.
Lo stesso vale quando si portano i cavalli all’esterno considerandoli “liberi” mentre li si tiene con la capezza: non sto dicendo si tratti di pratiche sbagliate di per sé, ma va capito che non sono più naturali o particolarmente più vicine all’etologia del cavallo. Si tratta solo dello stesso prodotto, confezionato in maniera diversa, secondo la moda.
Sono convinto, ad esempio, che sia meglio montare un cavallo usando un’imboccatura leggera ma conoscendo la teoria dell’apprendimento – dunque sapendo comunicare bene con il cavallo, perché sappiamo come e quando impara – che montare senza nulla e non avere idea di cosa si sta facendo. Tanti poi applicano la teoria dell’apprendimento alla perfezione e sanno bene, ad esempio, quando rilasciare la pressione: quello che non sanno è il perché, la spiegazione scientifica.
Nel momento in cui saliamo sul cavallo o usiamo una capezza, una longhina o una qualche sella, stiamo comunque servendoci di risposte condizionate. Negarlo vuol dire negare l’essere cavallo: ogni iniziativa attenta al loro benessere è bene accetta, ma bisogna fare attenzione a non inventare – e diffondere – cose prive di fondamenti scientifici. Non esistono federazioni o associazioni “ufficiali” che insegnino questo tipo di competenze rispetto ai cavalli, non c’è un percorso formativo strutturato: formarsi sulle vere esigenze del cavallo è lasciato alla sensibilità del singolo individuo.
C’è un modo più corretto per approcciare il cavallo, fin dal nostro arrivo?
Se le nostre attività sono fatte nel modo giusto, il momento stesso del nostro arrivo non sarà percepito come negativo e invasivo. Ad esempio hanno condotto un piccolo studio, negli USA, per valutare le differenze nel comportamento del cavallo se lo si avvicina guardandolo negli occhi oppure no. Ne è emerso che al cavallo non interessa, per lui/lei non cambia nulla: ciò che conta è come lo fai stare quando lo prendi, durante le attività che si svolgono insieme. E trattandosi spesso di attività agonistica, un cavallo che sta bene mentalmente è un cavallo che darà senz’altro di più in una qualsiasi competizione, come l’atleta umano.
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