COSTUME E SOCIETÀ

Chi è il ricercatore più appagato?

COSTUME – La rivista Nature indaga sul livello di soddisfazione professionale degli scienziati. E scopre che per farli davvero felici servono soprattutto tre cose: una buona guida, un buono stipendio, indipendenza.

Al primo posto ci sono i danesi, all’ultimo (il sedicesimo) i giapponesi. Gli italiani, come prevedibile, stanno verso la fine, in tredicesima posizione. Stiamo parlando della classifica sulla soddisfazione professionale dei ricercatori, stilata dalla rivista Nature a conclusione di un’indagine  condotta pochi mesi fa. Nature, in pratica, voleva sapere quanto siano appagati dal proprio lavoro i ricercatori di vari paesi del mondo. Così, glielo ha semplicemente chiesto, con una serie di domande attente a tenere in considerazione vari aspetti che possono comporre quella soddisfazione: dallo stipendio al piano di previdenza sanitaria e pensionistica, al grado di indipendenza. In tutto, sono stati coinvolti oltre 10.500 scienziati: postdoc, ricercatori, professori associati o ordinari, oppure ricercatori in ambito industriale .

I più contenti, si diceva, stanno in Danimarca: lì i ricercatori si sono dichiarati da soddisfatti a molto soddisfatti per la maggior parte degli aspetti considerati. Gli scontenti, invece, stanno per lo più in Asia: oltre al Giappone, occupano le ultime posizioni Cina (15esimo posto), India (14esimo), Corea del Sud (12-esimo). C’è da dire però che, rispondendo a un’altra domanda, indiani e cinesi hanno dichiarato di aver vissuto un significativo aumento della propria soddisfazione lavorativa negli ultimi anni. Molto più alto di quello vissuto nel resto del mondo. La stessa Corea del Sud, d’altra parte, risulta al primo posto nella classifica delle partià dei poteri d’acquisto (PPA), un indice che permette di confrontare il valore di stipendi erogati in paesi con diverse condizioni quanto a servizi e costo della vita. Almeno in questo caso, quindi, i soldi non fanno la felicità. In ogni caso, è significativo sottolineare che l’Italia si trova in fondo anche a questa classifica (penultimo posto a pari merito con la Francia, superate solo salla Cina). A passarsela meglio, dopo la Corea del Sud, sono Stati Uniti e Australia.

Certo, in questo tipo di indagini la possibilità di interpretare erroneamente i dati c’è sempre. Può succedere, per esempio, che gli abitanti di un certo paese siano più inclini, per ragioni culturali o legate allo stile di vita, a dichiarare di essere molto soddisfatti (o, al contrario, molto insoddisfatti) del proprio lavoro. Per portare alla luce questa potenziale distorsione, Nature ha confrontato i risultati della sua indagine con i dati del cosiddetto “indice di felicità”, che misura il livello soggettivo di felicità dichiarato dagli abitanti di 146 paesi. Molte delle posizioni nelle due classifiche sono apparse chiaramente correlate: la Danimarca, per esempio, non ha solo gli scienziati più felici, ma in generale anche i cittadini. Il che significa che il background può avere una certa influenza generale sulle soddisfazioni di vita e carriera. In Francia, al contrario, i ricercatori sembrano più felici del resto della popolazione.

Ma quali sono i fattori che “pesano” di più, quando si tratta di incidere sulla soddisfazione professionale in generale? L’indagine di Nature parla chiaro: al primo posto c’è il fatto di avere una guida (un “capo”) e dei collaboratori su cui contare. Un aspetto su cui gli italiani in generale non brillano, come sa chiunque abbia frequentato un po’ i patri laboratori di ricerca. Seguono stipendi e grado di indipendenza.

Un altro dato interessante che emerge dall’indagine è il fatto che il livello di soddisfazione tende ad aumentare con la posizione raggiunta. I full professor sono più appagati degli associati, che lo sono più dei ricercatori, che lo sono più dei postdoc. Almeno in Asia e negli Stati Uniti. In Europa, però, questo non è sempre vero: si registra una flessione subito dopo il postdoc, probabilmente perché i ricercatori europei entrano di ruolo con uno stipendio inferiore e con meno sostegno da parte di colleghi e superiori rispetto a quanto accade in altri paesi.

Punto dolente ahimé già noto è la questione delle differenze di genere. Anche questo studio ha confermato che, a parità di età e di posizione, le donne ricevono stipendi più bassi dei colleghi maschi: dal 18 al 40% in meno. Non è chiaro però se questa forbice si riduca nel caso in cui si confrontino uomini e donne senza figli e famiglia. In ogni caso, nonostante la differenza di trattamento economico non sembrano esserci grosse discrepanze nel livello di soddisfazione espresso da uomini e donne, con l’unica eccezione dell’India.

E ora un ultimo dato, sempre relativo ai salari: non è una grossa sorpresa, ma sono risultati molto più elevati in ambito industriale. Chi lavora per una company percepisce uno stipendio fino al 40-50% più elevato di chi lavora in università o centri di ricerca pubblici.

Condividi su
Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance