NOTIZIE – Quando parlo di questi argomenti mi sento come un artificere che maneggia una mina. Oscillo fra il desiderio che siano vere e la paura di prendere un granchio e finisco costringermi allo scetticismo. Insomma, la notizia è che su PLoS One, James San Antonio, Mary Schweitzer e altri avanzano (e supportano con dei dati) una spiegazione plausibile su come le proteine possono conservarsi nei fossili per diversi milioni di anni. A qualcuno forse il nome della Sweitzer non suona nuovo. La scienziata (una collaboratrice del famoso cacciatore di dinosauri, Jack Horner, di cui abbiamo parlato solo un paio di giorni fa) è al centro di un contenzioso che dura da qualche anno. Schweitzer infatti nel 2007 ha pubblicato un famoso articolo (su Science) in cui sosteneva di aver individuato dei frammenti di proteine di collagene nell’osso femorale di un T-rex (fossile ovviamente, e vecchio di 68 milioni di anni). A quel punto la comunità scientifica s’è divisa in due, da un lato coloro che credono nella genuinità dei dati di Schweitzer dall’altro quelli che ritengono che si tratti solo di artefatti sperimentali. I secondi si basano sulla nozione accettata dalla maggior parte della comunità scientifica che le proteine siano deperibili: secondo i modelli teorici non potrebbero conservarsi più di uno o due milioni di anni, e anche i dati sperimentali (Schweitzer a parte) confermano. Le proteine più vecchie finora trovate (e accertate) appartengono a dei batteri fossili trovati nelle carote di ghiaccio e hanno “solo” qualche centinaio di migliaia di anni.
Il nuovo studio va dritto al cuore del dibattito, e dimostra (o così sostengono gli autori) che il collagene potrebbe davvero resistere molto a lungo, grazie a una “schermatura” dovuta alla sua stessa struttura. La molecola del collagene (una proteina abbondante nell’organismo animale, specialmente nelle ossa) è formato da una tripla elica che si arrotola su se stessa. Cinque di queste eliche si arrotolano a loro volta a formare una microfibrilla e centinaia di microfibrille si arrotolano insieme a formare una fibrilla, insomma una specie di corda multistrato. È proprio tutto questo arrotolamento a dare agli aminoacidi (le componenti delle proteine) la protezione dagli enzimi che dall’esterno vanno a degradare nel tempo la proteina.
In undici campioni prelevati dal tirannosauro dello studio originale e da un altro fossile, un Brachylophosaurus canadensis – 80 milioni d’anni di età – gli autori hanno individuato degli aminoacidi che provenivano proprio dalle parti più interne delle microfibrille (questo l’hanno capito compararndo i campioni con altri provenienti da esseri umani e ratti). Gli aminoacidi trovati nei fossili inoltre hanno una percentuale molto bassa del tipo acido, il più vulnerabile al degrado.
Anche in questo caso gli scettici non mancano. C’è chi parla nuovamente di contaminanti, ma Schweitzer assicura che i risultati ottenuti da lei stessa sono stati replicati da altri due laboratori.