ECONOMIA – Ricordate l’epidemia di infezioni da Escherichia coli che l’anno scorso ha spazzato l’Europa, provocando alcune decine di morti e migliaia di ricoveri ospedalieri? I primi casi di intossicazione furono segnalati in Germania all’inizio di maggio ma ci vollero quasi due mesi per capire che i colpevoli non erano cetrioli spagnoli ma germogli di semi (fieno greco in particolare) e per individuare la probabile origine degli “untori” in una società di esportazione egiziana. Ecco, il caso è emblematico di quanto sia diventato difficile individuare velocemente il punto di partenza di una contaminazione alimentare, nonostante questa sia proprio la prima informazione che bisognerebbe ottenere in situazioni del genere. Del resto, basta dare un’occhiata all’intricata rete degli scambi internazionali del settore agroalimentare ricostruita su PLoS One da un gruppo di ricercatori di vari paesi per rendersi conto che il compito non può che essere complicatissimo .
Partendo dai dati di import-export di materie prime e prodotti alimentari raccolti per 207 paesi del mondo dalle Nazioni Unite, e naturalmente con l’aiuto di strumenti di analisi matematica, i ricercatori sono riusciti a tracciare su carta il network di scambi internazionali registrato nel 1998 (ma la struttura è rimasta molto simile anche 10 anni dopo). A guardare la figura (in apertura e qui se la volete più grande) c’è da farsi venire il mal di testa e il messaggio chiave che ne emerge è molto chiaro: tutti ormai sono in contatto con tutti.
Un altro diagramma mette in luce l’ossatura fondamentale del network, costruita con dati relativi al 2007: ne fanno parte 44 paesi, che registrano il più ampio volume di traffico import-export complessivo.
I ricercatori, inoltre, hanno individuato i 7 paesi più attivi negli scambi con il resto del mondo. Si tratta di Stati Uniti, Germania, Francia, Olanda, Gran Bretagna, Cina e Italia: ognuno di loro ha scambi commerciali in entrata o in uscita con almeno il 77% degli altri paesi del mondo. Un altro dato aiuta a farsi un’idea della complessità di questo aspetto della globalizzazione e cioè il fatto che il flusso internazionale di scambi nel settore agroalimentare sta crescendo molto più velocemente rispetto alla produzione totale di cibo: se quest’ultima è aumentata di 1,4 volte nel decennio 1998-2008, il volume totale di cibo in viaggio per il mondo è aumentato di 2,3 volte.
Ecco perché la probabilità che quello che ci troviamo nel piatto sia ogni volta un melting pot internazionale è altissima. Lo ha ben mostrato Patrick Wall, docente di sanità pubblica all’University College di Dublino, in una sua presentazione all’Oxford Farming Conference del 2010: secondo il professore, un piatto di pollo alla Kiev (petto farcito con burro alle erbe, impanato e fritto) servito in un ristorante di Dublino, può contenere ingredienti provenienti da almeno 15 paesi, dall’Australia alla Cina passando per il Belgio.
In un tale groviglio, afferrare il bandolo della matassa ogni volta che c’è qualche problema è oggettivamente complicato. «Questo non significa che in futuro i casi di intossicazione alimentare siano destinati ad aumentare», precisano i ricercatori. «Semplicemente, significa che quando si verificheranno sarà più difficile identificare le fonti». Soluzioni? Per gli autori ce n’è una sola: intensificare gli sforzi per sviluppare «un approccio globale e interdisciplinare in grado di monitorare, comprendere e controllare i flussi dei settore agroalimentare».
Immagini tratte dall’articolo originale su PLoS One.