ATTUALITÀ

Il premio Nobel ha ancora senso?

Deciso a porte chiuse e circondato da un alone di mistero, il premio Nobel è un riconoscimento che celebra tre scienziati per il lavoro di mille. Un'istituzione che è rimasta quasi immobile, ma nel frattempo la scienza è cambiata

La medaglia consegnata a Eisaku Sato, vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 1974. Fotografia di Awalin, Wikimedia Commons, CC BY-SA 4.0

ATTUALITÀ – Con lo Sveriges Riksbank Prize per l’economia, conferito a Richard Thaler dalla Banca di Svezia, anche quest’anno la cerimonia di consegna dei premi Nobel è arrivata alla fine. Se il riconoscimento ai fisici Barrish, Thorne e Weiss per il lavoro svolto con l’interferometro LIGO era quasi atteso, dopo le straordinarie scoperte fatte sulle onde gravitazionali, veder premiata la cronobiologia è stato decisamente una sorpresa. Come lo è stato, anche se non ai livelli del premio 2016 a Bob Dylan, il Nobel per la letteratura allo scrittore Kazuo Ishiguro, che non figurava tra i possibili candidati selezionati dalla Clarivate Analytics (ex Thomson Reuters).

Ogni anno con i Nobel la scienza gode dei famosi 15 minuti di notorietà e finisce sulle pagine di tutti i giornali. Le scoperte più eccezionali di ogni campo – fatta eccezione per la grande assente, la matematica, che deve “consolarsi” con le medaglie Fields e il premio Abel – vengono giustamente celebrate e così le personalità che vi stanno dietro, ma secondo molti si tratta di un’arma a doppio taglio. La natura stessa del premio è legata alla tradizione, a una scienza che appartiene al passato, ma non rispecchia più il modo in cui la ricerca avviene davvero nei laboratori e sul campo in tutto il mondo. Ovvero come opera collettiva, frutto del lavoro di squadra di decine di scienziati, a volte decine di gruppi di ricerca, i cui nomi da soli bastano a riempire pagine e pagine dei paper pubblicati.

Come le tre pagine che ospitano i nomi degli scienziati coinvolti nel lavoro di LIGO, fa notare Ed Yong sull’Atlantic, per il quale tuttavia sono stati premiati non in mille, ma in tre. In altre parole, incalza Nicole Kobie a conclusione di un articolo su Wired USA, “Weiss, Thorn e Barish hanno portato a casa il premio – e la loro quota di nove milioni di corone – ma anche voi che li avete aiutati a individuare le onde gravitazionali dell’universo, siete tutti vincitori”.

Fatta eccezione per il Nobel per la Pace, che ha spesso premiato le organizzazioni e non i singoli (2017 ICAN, 2015 Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, 2013 OPAC), la massima concessione è quella di non riconoscere il premio a un singolo ma a tre scienziati, lasciando comunque fuori il quarto, il quinto, il sesto, liste che possono essere anche molto lunghe.

È virtualmente impossibile conferire il premio a mille persone, ma il dubbio rimane e la domanda che molti si pongono è: il Nobel in questi termini ha ancora senso? Quale messaggio manda e quale identikit della scienza promuove, con una decisione presa a porte chiuse e avvolta da un alone di mistero quasi “divino” (come il fatto che dei candidati esclusi non si potrà discutere per 50 anni) pur essendo non solo umana ma soggettiva?

Il premio è stato corrisposto ogni anno negli scorsi 116 anni (tranne nel 1940-42) ed è innegabile che nel corso della sua storia ha plasmato nel profondo il mondo stesso della scienza. Soprattutto quando è riuscito a sorprendere. Tra i più papabili candidati al premio per la medicina nel 2016 spiccava l’immunoterapia, strategia terapeutica che agisce direttamente sul nostro sistema immunitario per regolarne l’azione su un agente esterno – come il cancro, nel qual caso si parla di immunoncologia -. A trionfare è stato invece il giapponese Yoshinori Ohsumi con i suoi studi sull’autofagia, il meccanismo tramite il quale una cellula elimina autonomamente alcune sue parti.

Gli esperimenti di Ohsumi, condotti negli anni Novanta, hanno chiarito i meccanismi genetici e l’importanza di questo fenomeno in vari processi fisiologici e il suo ruolo nelle malattie neurologiche e nel cancro. Potremmo dire che il Nobel 2017 ha seguito a ruota perché l’Accademia Svedese non ha premiato la scoperta dell’Herpes virus umano 8 o la comprensione del metabolismo delle celluletumorali (come da previsioni) ma la cronobiologia.

La ricerca di base di Hall, Rosbash e Young, condotta sui moscerini della frutta, ci ha condotti alle attuali conoscenze sui ritmi circadiani – quello che chiamiamo “orologio biologico” – e su come questi influenzino la nostra salute ma anche la fisiologia delle piante e delle altre specie animali.

In questo caso, secondo alcuni, il Nobel non è servito “solo” a premiare un filone di ricerca in apparenza meno accattivante di altri (anche se di fondamentale importanza) ma soprattutto per mandare un messaggio forte e chiaro, con il megafono per la scienza del quale solo il Karolinska Institutet dispone. Come ha scritto Jerome Groopman sul New Yorker, subito dopo la consegna del Nobel, il premio arriva proprio in un momento nel quale la ricerca di base è sotto assedio, messa in discussione, sminuita se messa a confronto con la ricerca applicata della quale vediamo subito i risultati concreti.

È possibile che, nell’attuale clima politico, Hall, Rosbash e Young non avrebbero mai ricevuto fondi per la loro ricerca. Dopotutto, ci serve davvero sapere che cosa regola il funzionamento di un moscerino della frutta? Ma, come ha chiarito il comitato del Nobel stamattina, la scienza che guida – e a volte rivoluziona – la nostra comprensione della salute umana e delle patologie arriva spesso da fonti inaspettate. Ohsumi ha esplorato l’autofagia sulle cellule di lievito, ma dentro di me e dentro di voi c’è un sistema molto simile che si occupa della “spazzatura”. Allo stesso modo, gli studi sul ritmo circadiano nei moscerini hanno fatto luce su geni e proteine che sincronizzano il nostro corpo con il giorno; potrebbero portare a trattamenti per problemi di vario genere, dal jet lag fino a patologie come obesità e malattie cardiache. La gioia della scienza è imparare per il piacere di farlo; qualsiasi sia la scoperta straordinaria che ne emerge potrà essere usata per affrontare i problemi con i quali ci scontriamo quotidianamente. Il messaggio insito nell’annuncio del Premio Nobel di oggi non poteva arrivare in un momento migliore. O in uno più insidioso (Jerome Groopman).

Ricerca applicata come quella che nel 2008 è valsa il premio Nobel per la medicina a Françoise Barré-Sinoussi e Luc Montagnier, per aver scoperto il virus dell’HIV. Montagnier è divenuto poi (di nuovo) famoso perché esempio perfetto della Nobel disease, come è stata battezzata la tendenza di determinati vincitori del Nobel a diventare sostenitori di teorie pseudo-scientifiche, soprattutto in tarda età – qui una lista di nomi -. Montagnier è infatti un sostenitore dell’omeopatia e della “memoria dell’acqua”, la presunta (e non scientificamente dimostrata) proprietà per la quale l’acqua manterrebbe il ricordo delle sostanze con le quali è entrata a contatto.

La Nobel disease è un ottimo bacino per barzellette scientifiche, ma anche qualcosa di decisamente pericoloso. Chi contraddirebbe un vincitore del premio Nobel? Se lo dice lui, dev’essere vero. Così le teorie pseudoscientifiche prendono piede, fiere del marchio Nobel-approved.

Ma sostenere l’omeopatia non è la più ascientifica delle posizioni assunte negli anni. Abbiamo il noto razzismo di James Watson (Nobel per la medicina 1962), le teorie eugenetiche di William Shockley (Nobel per la fisica 1956) e l’etologo Nikolaas Tinbergen (Nobel per la medicina 1973) con le sue ipotesi – ampiamente smentite – sull’origine e il trattamento dell’autismo. C’è poi chi non si fa mancare nulla come lo scopritore della PCR Kary Mullis (Nobel per la medicina 1993) che ha sostenuto la validità dell’astrologia, negato il cambiamento climatico e la correlazione tra HIV e AIDS. A scorrere la lista dei grandi nomi colpiti da Nobel disease, salta all’occhio in particolare che molti vengono colpiti da una malriposta fiducia negli psichici e nel paranormale.

Anche quello che potremmo definire “identikit” del premio Nobel 2017 ha dato spazio a molte discussioni, a partire dall’età media che è sempre elevata e addirittura va aumentando. Se nel decennio 1930-40 per la fisica era 41, scrive la giornalista del Guardian Hannah Devlin in un editoriale dal titolo Why don’t women win Nobel science prizes?, oggi sfioriamo i 68.

Un approccio sempre più cauto fa sì che trascorrano spesso anni o decenni tra una scoperta e il suo trionfo ai Nobel, ma uno dei risultati è che nei premi si riflette la composizione di un’accademia che non è più così attuale, mentre ricercatori e ricercatrici ancora attivi vengono lasciati fuori. Ricercatrici soprattutto, fa notare Devlin, perché per trovare una vincitrice donna bisogna andare indietro di 50 anni (Maria Goeppert Mayer) e l’ultima risale al 2015, quando metà del Nobel per la medicina (gli altri due vincitori sono stati William C. Campbell e a Satoshi Omura) è andato a Tu Youyou per la sua ricerca che ha portato a un trattamento per la malaria.

Diverse le “occasioni perdute” come un meritato Nobel per la fisica a Vera Rubin, prosegue Devlin, l’astronoma che scoprì la materia oscura ed è scomparsa lo scorso 25 dicembre all’età di 88 anni. Rubin è stata premiata con la National Medal of Science e nel 1996 è stata la seconda donna a ricevere la gold medal della Royal Astronomical Society. Che meritasse il Nobel è un’opinione condivisa da molti, e accanto a lei c’è Lise Meitner (1878-1968) la fisica austriaca che insieme a Otto Hahn scoprì la fissione nucleare.

Il punto, lo ha confermato ai giornalisti in sala Göran Hansson della Nobel Foundation, è proprio che “Dobbiamo aspettare che [le scoperte] siano state verificate e validate, prima di poter conferire il premio. [In passato] c’era un divario ancora più ampio tra uomini e donne. 20 o 30 anni fa le scienziate erano ancora meno”. E ancora “Sospetto che ci siano molte altre donne che meritano di essere considerate per il premio. Per questo abbiamo iniziato a identificare le scienziate più meritevoli e sollecitato la loro nomina. A partire dal prossimo anno, nel nostro invito, inizieremo a richiedere che vengano nominate scienziate donne e tenute in considerazione le diversità etniche e geografiche”.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Rosalyn Sussman Yalow, il Nobel venuto dal Bronx

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".