Dopo l’Apollo 11: l’inizio di una nuova fase
Le prime due missioni dopo la grande impresa del luglio 1969: il viaggio di successo dell’Apollo 12 e la terribile disavventura dell’Apollo 13.
Arrivare secondi può non essere piacevole, ma presenta numerosi vantaggi. Dopo la sbornia collettiva dell’Apollo 11, i preparativi per il lancio della missione successiva avvengono in un clima completamente diverso. Il tanto sospirato traguardo è stato raggiunto pochi mesi prima e il ricordo della grande impresa è ancora vivido nelle menti di tutti. Qualcosa è cambiato, la tensione che aveva caratterizzato la missione precedente sembra scomparsa.
Apollo 12 – partenza e allunaggio
I membri dell’equipaggio dell’Apollo 12 sono Charles ‘Pete’ Conrad, comandante, Alan Bean, pilota del modulo lunare e Richard Gordon, alla guida del modulo di comando. Il decollo avviene il 14 novembre 1969. Non tutto va per il verso giusto, tanto che per alcuni minuti si pensa di interrompere la missione. A meno di 60 secondi dal lancio due fulmini colpiscono il vettore Saturn V; i sistemi di telemetria vanno in tilt, ma grazie alle conoscenze di John Aaron, uno degli ingegneri responsabili delle operazioni di volo, e alla memoria di Alan Bean, che ricorda di aver affrontato un problema simile durante le simulazioni e preme con prontezza un interruttore che si trova alle sue spalle, il problema viene risolto dopo pochi minuti. La navicella non riporta grossi danni e il viaggio può procedere regolarmente.
Dopo essere stato sganciato dal modulo di comando, chiamato Yankee Clipper, il 19 novembre 1969 il modulo lunare Intrepid tocca la superficie nell’Oceanus Procellarum, a 1500 chilometri di distanza dalla zona in cui era sbarcato l’Eagle quattro mesi prima. A bordo ci sono Conrad e Bean, il terzo e il quarto uomo a mettere piede sulla Luna. “Man, that may have been a small one for Neil, but that’s a long one for me!”, “questo sarà stato un piccolo passo per Neil, ma per me è un gran bel balzo!” Le prime parole pronunciate da Conrad sono al tempo stesso una bonaria presa in giro nei confronti di Neil Armstrong, un chiaro riferimento alla gravità lunare – a causa della quale è quasi impossibile compiere passi davvero “piccoli” – e un’espressione di notevole autoironia, data la bassa statura del comandante dell’Apollo 12. La frase è il risultato di una scommessa tra Conrad e la giornalista Oriana Fallaci, che all’epoca si occupava di seguire le missioni Apollo per il Corriere della Sera. Convinta che le frasi pronunciate dagli astronauti durante l’allunaggio fossero preparate a tavolino dalla NASA, la donna aveva concordato con Conrad le parole da dire una volta giunto sulla Luna e scommesso 500 dollari che avrebbe detto qualcos’altro. Scommessa vinta da Conrad.
Sulla Luna tra conigliette e vecchie sonde
L’attività extraveicolare dei due uomini dell’Apollo 12 dura molto di più rispetto a quella compiuta da Armstrong e Aldrin: quasi otto ore complessive anziché due ore e mezza. Bean e Conrad raccolgono 35 chili di campioni lunari ed eseguono vari esperimenti scientifici sul flusso del vento solare, sul campo magnetico e sulla sismicità della Luna. Durante una di queste passeggiate lunari, dal centro controllo missione di Houston si sentono chiaramente i due astronauti ridere fragorosamente. Il motivo delle risate resterà un mistero fino al 1994, quando Conrad racconterà che Irwin e Scott, gli uomini dell’equipaggio di riserva, avevano inserito di nascosto le foto di alcune conigliette di Playboy all’interno della Cuff Checklist, un libretto con l’elenco delle attività che gli astronauti indossavano attorno al polso, sopra la tuta per le attività extraveicolari.
Il luogo dell’allunaggio viene scelto per un motivo ben preciso: individuare la sonda Surveyor 3, giunta sul nostro satellite nell’aprile del 1967, e riportare sulla Terra alcuni strumenti presenti all’interno del relitto. Trovare il punto esatto in cui giacciono i resti del veicolo non è affatto semplice, ma durante la discesa a bordo dell’Intrepid i due astronauti riescono a scorgere la sonda, situata all’interno di un cratere. Il modulo lunare sbarca a meno di duecento metri dal Surveyor. Gli uomini recuperano la videocamera e altri elementi presenti sul relitto. Dopo il rientro sulla Terra, avvenuto il 20 novembre 1969, all’interno di una guarnizione della videocamera sarà rinvenuto uno Streptococcus mitis, comune batterio terrestre. Inizialmente la NASA attribuirà la presenza del microrganismo alla mancata sterilizzazione della camera al momento del lancio della sonda, due anni prima; il batterio sarebbe quindi sopravvissuto per oltre due anni alle proibitive condizioni dell’ambiente lunare. A distanza di anni sarà valutata anche la possibilità di contaminazioni successive, ma non sarà possibile provare nessuna delle due teorie.
Apollo 13 – la prima missione del nuovo decennio
Sono trascorsi quasi dieci anni dal discorso di Kennedy di fronte al Congresso, il 25 maggio 1961. Per la NASA gli anni Sessanta sono finiti in modo trionfale, ma il nuovo decennio si preannuncia da subito molto diverso. Nel marzo del 1970, Richard Nixon rilascia una dichiarazione che lascia trasparire un imminente cambio di rotta. “Le spese spaziali”, sostiene Nixon, “devono prendere il loro posto in un rigoroso sistema di priorità nazionali. Quello che faremo nello spazio d’ora in poi […] dovrà essere pianificato insieme a tutte le altre imprese che riteniamo importanti per la nostra collettività”. In altri termini, dopo aver sconfitto i sovietici nella corsa allo spazio l’obiettivo è stato raggiunto e non c’è più alcun motivo per investire tante risorse in un programma come Apollo.
Nel frattempo, la terza missione umana sulla Luna è pronta a partire. Il decollo dell’Apollo 13 è previsto per l’11 aprile 1970. L’entusiasmo collettivo per le prime due missioni è ormai un lontano ricordo e l’interesse suscitato da questo lancio è ben poca cosa rispetto al passato. A bordo della navicella ci sono Jim Lovell, già membro dell’equipaggio dell’Apollo 8, Fred Haise, pilota del modulo lunare Aquarius e Jack Swigert, alla guida del modulo di comando Odyssey. Pochi giorni prima del lancio, il figlio di Charles Duke – pilota di riserva del modulo lunare – contrae la rosolia; fra tutti gli astronauti, Ken Mattingly, che dovrebbe pilotare il modulo di comando, è l’unico a non essere immune alla malattia. Si decide quindi di sostituirlo con il pilota di riserva del modulo di comando, Jack Swigert. Mattingly non si ammalerà e da terra darà un contributo fondamentale alla missione, aiutando i suoi compagni nello spazio a rientrare a casa sani e salvi.
L’incidente e le strategie di sopravvivenza
“Okay, Houston, I believe we’ve had a problem here”. “Okay, Houston, credo che qui abbiamo avuto un problema”. Sono parole di Jack Swigert. Circa 55 ore dopo il lancio, quando la navicella si trova ormai a oltre 320.000 chilometri dalla Terra, uno dei serbatoi di ossigeno del modulo di servizio esplode improvvisamente. La causa dell’incidente non è chiara; qualcuno ipotizza si tratti di un guasto interno, qualcun altro pensa possa essere stato l’impatto con un piccolo meteorite. Tempo dopo si scoprirà che l’esplosione è stata provocata da un corto circuito avvenuto in uno dei cavi che collegano il propulsore al miscelatore dell’ossigeno. L’unica cosa certa in quel momento è che due serbatoi sono ormai inutilizzabili e il funzionamento del modulo di servizio è definitivamente compromesso. La Luna non è più raggiungibile, ma anche tornare indietro non è affatto semplice.
Dopo numerosi confronti, i responsabili della missione decidono che la cosa migliore da fare è far mantenere alla navicella la rotta verso la Luna in modo che, una volta giunta in orbita, sfrutti la cosiddetta traiettoria di rientro libero: il veicolo, giunto in prossimità del lato nascosto del nostro satellite, dovrebbe poter ripartire verso la Terra con il solo ausilio della gravità, senza dover utilizzare il propulsore del modulo di servizio, probabilmente danneggiato. Mentre sorvola la faccia nascosta della Luna, l’Apollo 13 raggiunge un’altitudine di 254 chilometri sulla superficie, arrivando a una distanza complessiva dalla terra di oltre 400.000 chilometri. Nessun essere umano, ancora oggi, si è mai spinto così lontano dal nostro pianeta.
Dopo estenuanti discussioni e non senza polemiche, per acquisire velocità e correggere parzialmente la rotta dopo l’attraversamento della Luna, gli ingegneri della NASA chiedono agli astronauti di accendere due volte i motori dell’Aquarius. Le incognite sono molte, soprattutto perché il sistema di propulsione del modulo lunare è progettato per funzionare una volta sola, durante la discesa verso la superficie della Luna. Per fortuna tutto funziona correttamente.
L’Aquarius si trasforma in una vera e propria scialuppa di salvataggio. Il sistema di alimentazione del modulo di comando ha subito gravi danni, la cabina non è più abitabile. Gli astronauti si trasferiscono quindi all’interno del modulo lunare, perfettamente integro, dove resteranno fino al raggiungimento dell’atmosfera terrestre, previsto dopo quattro giorni; a quel punto sarà necessario tornare nel modulo di comando, l’unico dotato di scudo termico, attivando le batterie di emergenza, destinate a restare in funzione per un massimo di dieci ore. I problemi, però, non sono finiti. L’Aquarius, progettato per ospitare due sole persone nell’arco di due giorni, non è adatto alla permanenza di tre astronauti per il doppio del tempo. I filtri per la depurazione dell’anidride carbonica presenti all’interno non riescono a smaltire la CO2 in eccesso e Lovell, Haise e Swigert rischiano di morire per la carenza di ossigeno. Si salvano grazie all’ingegno di Robert ‘Ed’ Smylie, responsabile degli apparati di supporto vitale, e dei tecnici del suo team, che spiegano loro come costruire un filtro artigianale con cartone, nastro adesivo e altri materiali presenti sulla navicella.
Il rientro
La terribile disavventura che stanno vivendo i tre uomini dell’Apollo 13 ha ridestato l’interesse della gente e dei media. Una diretta televisiva segue minuto per minuto quel che avviene all’interno della navicella. Arrivati in prossimità dell’atmosfera terrestre, gli astronauti devono abbandonare l’Aquarius e tornare all’interno del modulo di comando. La strumentazione è rimasta spenta per giorni e la temperatura all’interno dell’abitacolo è bassissima, intorno ai 4° C. La paura è che il sistema di alimentazione di emergenza non si riavvii, ma per fortuna è ancora funzionante.
Il 17 aprile, dopo aver effettuato il distacco dal modulo lunare, Odyssey attraversa l’atmosfera. In questa fase è normale che ci sia un’interruzione delle comunicazioni, che di solito non dura più di quattro minuti. Nel caso dell’Apollo 13, però, il blackout sembra non terminare mai. In tanti temono il peggio: il modulo di comando è in condizioni pessime e anche lo scudo termico potrebbe aver subito danni. Invece, dopo quasi sei minuti di silenzio, il collegamento radio viene ristabilito. Poco dopo, la navicella ammara nelle acque del Pacifico meridionale. Lovell, Haise e Swigert sono duramente provati, ma vivi.
“Failure is not an option”, “il fallimento non è un’opzione”, aveva detto Eugene Kranz, direttore delle operazioni di volo, poco dopo aver saputo dell’incidente. Aveva ragione, per fortuna. La NASA ha dimostrato di essere una macchina efficiente, in grado di gestire le emergenze nel migliore dei modi. La tragedia è evitata, il mondo intero tira un sospiro di sollievo e accoglie i tre astronauti come degli eroi. Quel che è certo, però, è che il nuovo decennio non è iniziato sotto i migliori auspici.
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