RICERCA – Cosa rende uno studente promettente uno scienziato di successo? Come si può, quindi, prevedere se un giovane ricercatore avrà una brillante carriera accademica oppure se non otterrà importanti risultati scientifici? In un periodo di difficoltà economica, in cui, almeno nel nostro Paese, i finanziamenti per la ricerca vengono elargiti con il contagocce, uno strumento in grado di valutare in anticipo i futuri ricercatori potrebbe essere utile per indirizzare le risorse disponibili verso i più promettenti.
In questo contesto si inserisce un recente articolo condotto da un gruppo di ricercatori guidato da Laurance William della James Cook University di Cairns, in Australia, che ha analizzato la carriera accademica di migliaia di biologi in tutto il mondo. Lo studio ha indagato diverse possibili variabili in grado di influenzare la produttività scientifica individuale nel lungo termine (nei 10 anni successivi al conseguimento del dottorato di ricerca), valutata sia in termini di numero di articoli pubblicati su riviste scientifiche internazionali (con peer-review e impact factor) sia di valore delle riviste stesse: tra queste variabili si annoverano il prestigio dell’istituzione che ha conferito il dottorato di ricerca, il sesso, la lingua madre, la data della prima pubblicazione in relazione al termine del dottorato nonché la produttività scientifica in fase studentesca, prima quindi dell’inizio del dottorato. È bene precisare che lo studio in questione è di carattere correlativo, e non fornisce dunque relazioni di causa-effetto tra le variabili analizzate.
I risultati, pubblicati dalla rivista BioScience, forniscono un quadro decisamente inaspettato. Contrariamente a quanto si potesse ipotizzare, non emerge infatti alcuna differenza nella produttività scientifica in relazione al prestigio dell’istituzione di appartenenza al momento del conseguimento del dottorato di ricerca. Sembrano invece avere qualche vantaggio i madrelingua inglesi (non dimentichiamo che la lingua ufficiale utilizzata in ambito scientifico, sia nei trattati scritti che nelle produzioni orali, è proprio l’inglese), soprattutto se di sesso maschile (in molti paesi le carriere accademiche femminili vengono infatti interrotte dalle gravidanze) e se hanno iniziato a pubblicare nelle prime fasi del proprio dottorato di ricerca.
Ma, sottolinea lo studio, la variabile che di gran lunga predice il futuro successo come ricercatore è la pubblicazione di almeno un lavoro nel corso del proprio percorso universitario in qualità di studente. Almeno per i biologi, non importa dunque se la crescita accademica sia avvenuta presso le Università di Harward o di Oxford o al MIT di Boston, ma è sufficiente che sia iniziata precocemente. A prescindere da tutto il resto, quindi, pubblicare in giovane età garantirebbe un roseo successo accademico.
Se tale studio fa ben sperare noi biologi affiliati agli atenei italiani, infelicemente mai al top delle graduatorie mondiali delle università e degli istituti di ricerca, personalmente non mi lascia certo dormire sonni tranquilli, dato che nessuna delle mie 14 pubblicazioni internazionali è stata prodotta in fase studentesca. Incrociamo le dita…
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