CRONACA – Il numero di volte che un articolo scientifico è stato citato, ovvero la misura moderna della “qualità” della ricerca: per gli amici, impact factor. Un metro di valutazione ormai molto noto e non condiviso da tutti, che tuttavia ha portato l’Italia a superare gli Stati Uniti. Addirittura? Sì, addirittura, lo ha stabilito uno studio commissionato dal governo britannico e ne hanno parlato anche su Nature, mentre dalla stampa italiana il risultato è stato pressoché ignorato del tutto.
Un articolo, quello comparso su Nature, che per una volta tesse le lodi dello stivale riportando i numeri del caso. Gli analisti della casa editrice Elsevier hanno stilato la classifica (il report completo qui), normalizzata per disciplina, portando a emergere tratti positivi come l’efficienza della nostra ricerca (risultata ottima). Nel 2012, ad esempio, con un notevole numero di citazioni ottenute per unità di spesa in ricerca e sviluppo siamo infatti stati secondi solamente al Regno Unito, pareggiando con il Canada e superando (oltre agli Stati Uniti) anche Germania e Francia.
Le banche dati prese in considerazione per lo studio sono quelle bibliometriche, come Scopus, che annoverano al loro interno tutte le discipline tecnico-scientifiche e bio-mediche fornendo un quadro della situazione rilevante e tutto sommato completo. Numeri a portata di mano, un buon risultato per una volta: eppure, a differenza dei risultati negativi dei quali certo non manchiamo, non se ne è parlato quasi per nulla. Perché? Ultimi nelle liberalizzazioni (Indagine dell’Istituto Bruno Leoni, 2013), nelle competenze alfabetiche, qualità e investimenti per la scuola (Ocse, ricerca condotta in Italia da Isfol) e terzultimi per la banda larga (Rapporto su reti & servizi di nuova generazione, 2013). I primati con il pollice verso non passano mai inosservati, anzi invadono la stampa italiana ogniqualvolta se ne aggiunge uno al carnet.
Se si parla delle università, ad esempio, ogni scusa è buona per sottolineare quanto grave sia la situazione, per dar spazio all’intervento del ministro di turno e alle promesse di interventi drastici, finanziamenti a pioggia e grandi rivoluzioni alla radice. Resta quindi ancor più un mistero il perché dei risultati positivi nessuno parli mai: le classifiche basate sul numero di citazioni degli articoli sono ad oggi un dato ritenuto affidabile, costituendo un indicatore semplice da misurare.
L’Italia supera infatti gli Usa, nel numero di citazioni, con un terzo della spesa. Supera la Francia e la Germania con la metà. Perché dunque non valorizzare l’efficienza del nostro sistema, riconoscendoci per una volta un primato valido? Forse a fronte dei se e dei ma che ci caratterizzano, come il fatto che i docenti di ruolo siano i più anziani dei paesi sviluppati, che spesso la politica ci metta lo zampino tramite gruppi di pressione e che nella gestione dei ruoli di potere accademico siano frequenti i fenomeni di malcostume. Questo perlomeno è ciò che passa all’esterno dell’ambiente universitario, e ciò che viene percepito dal pubblico.
Eppure le classifiche che valutano le università si fondano su criteri molto più arbitrari, stabilendo le posizioni degli atenei in base a parametri che variano dalla produzione scientifica al numero di studenti per docente, passando per le spese operative. Della serie, come sottolineano in molti, pare che i gruppi e le università siano spesso considerati tanto più efficienti quanto più spendono dei finanziamenti loro concessi. Un esempio? Le spese operative di Harvard, nel 2012, equivalgono a poco meno della metà dell’intero fondo di finanziamento ordinario dell’intera università italiana.
Ultimo pensiero, ma non meno importante, per instillare il germe del dubbio: va ricordato che c’è anche chi all’impact factor non riconosce validità, come il premio Nobel 2013 per la medicina, Randy Schekman. Nella sua crociata contro le più importanti riviste scientifiche, infatti, Schekman sostiene che la diffusione per citazioni di un paper può sì voler dire che si tratta di ricerca di alto livello, ma anche essere semplicemente la conseguenza di un ambito di studio accattivante e provocatorio, più “catchy” insomma.
Fonte: ROARS
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